Groovin’ Party #1, #2 e #4: Soundfactory e Boars Nest + Aida e May Be All + Camikaze

Tra le tante iniziative che videro coinvolti Groovin’ e il suo staff a inizio millennio, vanno sicuramente citati i Groovin’ Parties, una serie di eventi live del 2003 legati al nostro marchio, inclusi nella programmazione del Roadhouse Café. Una volta al mese sul palco del locale rolettese salivano due band pinerolesi, scelte in comunione tra noi e Paolo Bruno, bassista dei Disco Inferno e allora organizzatore del cartellone del Roadhouse. L’esordio dei Groovin’ Parties ebbe come protagonisti i Soundfactory, la tribute band di Elisa di cui vi avevamo già parlato alcuni mesi fa (https://groovin2019.home.blog/2019/03/28/soundfactory-tributo-a-elisa), e i Boars Nest, l’ensemble che riproponeva il pop e la dance degli anni Ottanta, in cui militavano i membri dello staff di Groovin’ (Ones, al secolo Marco Ughetto, David Giai Checco, Nicola Giordano, Marco Allaix e Filippo Peirano) più Debora Mustari, voce femminile di quel periodo. Clou della serata fu l’esibizione dei Soundfactory feat. David Giai Checco, in una bella versione di Cieli Neri che riprendeva il duetto originale Elisa/Morgan.

Il 21 marzo 2003 invece ci fu lo spettacolare Groovin’ Party #2. In quell’occasione suonarono due band capaci di riunire i migliori musicisti pinerolesi di allora. Ad aprire la serata furono gli Aida, la prog band di Ivano Gruarin (Chitarra), Davide Aglì (Tastiere), Renato Amerio (basso) e Carlo Cannarozzo (Batteria). A seguire i May Be All (qui la loro storia: https://groovin2019.home.blog/2019/07/29/diego-di-chiara-il-genio-egocentrico/), protagonisti di uno show memorabile. Di quella serata ne parlammo così:


Da www.groovin.it – marzo 2003

In occasione del Groovin’Party#1 avevamo evitato consapevolmente di spendere parole in merito sulle nostre pagine. Il primo motivo era perché non amiamo le autocelebrazioni, anche se poi di fatto rientriamo solo di sbieco in quello che è l’aspetto organizzativo, demandato quasi totalmente a Paolo Bruno, bassista dei Disco Inferno, che, in questa sede, veste i panni di organizzatore della programmazione “live” del Roadhouse. Il secondo motivo era strettamente legato alla nostra presenza, in quell’occasione, sul palco del Roadhouse in qualità non di staff ma di band che apriva la serie delle feste Grooviniane, che avrebbe reso poco credibile, e comunque di difficile attuazione, un qualunque commento tecnico della serata. Ciò che ora ci preme sottolineare però è come lo spirito che abbiamo voluto fortemente alla base del nostro progetto in rete sia stato trasposto in modo pressoché totale nei primi due appuntamenti del Groovin Party: la musica come elemento aggregante e, allo stesso tempo, veicolo di libertà espressiva, nel nome del rispetto costruito su un terreno che aborrisce l’erezione di qualunque tipo di barriera ideologica ed artistica. Ci aspettiamo ovviamente che anche gli appuntamenti futuri possano far trasparire questa nostra intenzione, raccogliendo ancora una volta lo stesso successo di pubblico, come nel caso delle prime due “puntate”, che dimostra la condivisione della nostra proposta da parte della maggioranza degli esponenti, a qualunque titolo, del mondo musicale Pinerolese. 

Il Groovin Party#2 è stata una serata come poche altre, un vero peccato per chi non c’era, soprattutto perché sul palco si sono alternate due band davvero eccezionali che, purtroppo per noi, è raro poter apprezzare dal vivo. Per primi hanno suonato gli AIDA, la band di Carlo Cannarozzo e Ivano Gruarin. E’ la storia di AIDA, fantomatico cavaliere medievale di loro invenzione, che si snocciola tra le pieghe della loro musica, un prog-rock strumentale, una sorta di Liquid Tension Experiment per intenderci, che ha finalmente messo in evidenza le grandi qualità tecniche dei due musicisti, forse un po’ troppo spesso ingabbiate dalle necessità professionistiche della loro esperienza nei Disco Inferno. Attraverso la suggestione tematica della fiaba raccontata, una sorta di poema epico-sinfonico, la notevole ricerca sonora e le linee melodiche accattivanti che si muovevano sulle ritmiche spesso “dispari” tipiche del rock progressivo di cui sono eccellenti interpreti, gli AIDA, il cui organico è completato dai bravissimi Davide Aglì (tastiere) e Renato Amerio (basso), assolutamente all’altezza, hanno saputo riportarci tutti quanti in un’altra dimensione, un ritorno ad un passato da favola che si contrappone in modo quasi paradossale all’aspetto futuristico delle loro note. In questo modo, a cavallo tra le sonorità del prog-rock anni 70 (a me personalmente in alcuni punti più “morbidi”, specie nelle linee di pianoforte, hanno ricordato addirittura il Banco di Mutuo Soccorso di “Darwin”) e le interpretazioni che del genere hanno dato formazioni più recenti (forse troppo scontato mettere in evidenza le influenze che possano aver avuto gruppi quali i Dream Theater), hanno saputo coinvolgere nel loro universo anche gli spettatori meno inclini ad un genere musicale che non sempre risulta di facile ascolto e comprensione, ma che invece, per l’occasione, è risultato di grande impatto sonoro ed emotivo.

Dopo un’ora di musica ed una decina di minuti per la preparazione del complesso show successivo, sale sul palco la variegata fauna che darà vita all’esibizione dei May Be All. L’evoluzione che negli anni ha subito il progetto di Diego Di Chiara è davvero notevole ed il risultato assolutamente sorprendente.
Uno spettacolo che trascende la musica, che se ne infischia delle regole, che prevarica ogni catalogazione e che trasforma così quello che loro stessi definiscono “crossover”, in un’esplorazione globale di disparate forme d’arte, con citazioni teatrali e poetiche che vanno al di là di un percorso strettamente musicale; un grande contenitore, avvalorato dalla presenza sul palco del gotha della musica Pinerolese, in cui si sono fuse influenze diverse, nel quale si sono sentite le origini “hard” della band, ma nel quale si è potuta scorgere l’incessante ricerca artistica che infine ha saputo ricreare atmosfere davvero irripetibili. Dolci ballades sostenute da due pianisti-tastieristi d’eccezione (Gianluca Pulina e Marco Varvello), dotati di grande sensibilità musicale; aspri riff che affondano le radici nella tradizione heavy metal più estrema portati avanti dalla grande grinta dei due May Be All originari, Diego Di Chiara e Gianni Pitzalis, nonché dal ritorno alle origini rockettare di un Paolo Bruno in splendida forma; citazioni reggheggianti e sprazzi di world music, evidenziate dalle sonorità etniche delle percussioni suonate da Alessandro Raise o dal violino di Marco Gentile, piuttosto che dalla fisarmonica (ancora suonata da Varvello) o dal clarinetto di Mattia Siccinio; un ulteriore esempio di fine ricerca sonora che mescola il rock più crudo all’elettronica più ipnotica; le taglienti voci di Cate (Seem to Madden) e di Alessandra (una delle Disco Sisters) che perfettamente si sono adattate all’anima sconvolgente dello show; non sempre di facile ascolto la musica dei MBA, ma certamente in grado di penetrare gli animi, di smuovere le coscienze, una personale interpretazione della retorica degli affetti in linea con l’atteggiamento da grande provocatore che da sempre si porta appresso l’ideatore di tutto questo: Diego Di Chiara. Ma il gran finale dello spettacolo, splendida interpretazione del concetto di Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte globale di Wagneriana memoria, è quanto di meglio possa essere utilizzato per riassumere la proposta dei May Be All. La pista e le balconate del Roadhouse si trasformano in palcoscenico, si sconfina agevolmente dall’idea canonica di concerto, è la poesia che racconta la solitudine, è il teatro che si sovrappone alle note per sostenere l’inutilità di una guerra che in questi giorni è diventata di un’attualità indescrivibile. Il messaggio antibellico culminerà nell’immagine di una “bandiera della guerra” che viene lanciata, come a sancirne la fine, dalla balconata retrostante il palco, mentre un uomo arabo ed una donna chiaramente occidentale si scambiano un bacio sotto una pioggia di dollari. Uno spettacolo assolutamente, come si direbbe oggi, “flashante”, che meriterebbe maggior fortuna, accompagnato da un messaggio di notevole profondità e che ci sentiamo di sostenere appieno, proprio alla luce di quanto sta accadendo nel mondo in queste ore.
PACE A TUTTI…
ones


Il quarto Groovin’ Party si tenne il 27/06/2003 e a salire sul palco del Roadhouse Café fu una party band con una formazione al cinquanta per cento proveniente da Pinerolo. Nei Camikaze suonavano anche il chitarrista Miky Bianco e il tastierista Beppe D’Angelo. Di quella serata ci rimangono alcuni scatti che vi proponiamo in sequenza.

ones

Marco Ughetto, appassionato di musica e giornalismo, chitarrista e cantautore amatoriale, si laurea in Cinema al DAMS di Torino nel 2014, con una tesi sui rapporti tra cinema e cultura digitale. Nel 2002, insieme ad altri quattro amici, dà il via alla prima versione di Groovin' - il portale della musica nel Pinerolese.

http://groovin.eu

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