La “svizzera italiana” del clarinetto basso. Intervista a Elisa Marchetti

Capita a volte che la musica ti porti a fare degli incontri davvero speciali. L’universo delle sette note, specie quello più lontano dalla nostra zona di comfort, incastonata tra il pop e il rock, è popolato di personaggi davvero superlativi, preparati a livelli altissimi da molteplici punti di vista, che affrontano la loro professione con una dedizione senza pari, lontani dai riflettori mediatici, perseguendo strade talvolta inconsuete, originali e ricche di idee e convinzioni. O che forse paiono tali ai nostri occhi di osservatori provinciali, ma della cui autenticità fatichiamo davvero a dubitare.

Elisa Marchetti è una giovane musicista originaria di Frossasco, che ha saputo cucirsi addosso una dimensione internazionale di assoluto valore, in particolare dalle parti della Confederazione Elvetica, dove risiede da alcuni anni. A osservare le sue note biografiche, tra le pieghe di innumerevoli esperienze e riconoscimenti, due sono le particolarità che emergono sulle altre. La prima riguarda il veicolo espressivo prescelto. Infatti, pur trovandosi a suo agio con molti esponenti della famiglia delle ance (clarinetti, sax, corni di bassetto), Elisa ha da tempo evidenziato una predilezione per il timbro viscerale e profondo del clarinetto basso, strumento affascinante quanto atipico. La passione per il clarinetto basso, che si distingue esteticamente dal suo parente più noto per dimensioni sensibilmente maggiori, e per i suoi tipici prolungamenti – chiver e campana – che lo accomunano visivamente al gruppo dei saxofoni, ha condotto Elisa non solo a collaborare come concertista con alcune tra le più prestigiose orchestre italiane e svizzere, ma anche ad essere protagonista di numerose altre iniziative parallele. Tra le tante, vanno sottolineate la cooperazione con il brand “Made in Orchestra”, format didattico fruibile su YouTube, indirizzato ai musicisti che aspirano a suonare in orchestra, e la partecipazione alla fondazione del “Centro Internazionale di Ricerca sul Clarinetto Basso”, uno spazio web che dal 2010 si prefigge lo scopo di raccogliere composizioni, trattati teorici, registrazioni, e quant’altro riguardi questo affascinante “legno”.

Elisa Marchetti in una delle videolezioni di “Made in Orchestra”

La seconda peculiarità della storia musicale di Elisa riguarda la sua inclinazione per la didattica, ambito nel quale ha ottenuto anche importanti riconoscimenti ufficiali, quale ad esempio la nomina per il “Kiwanis Preis 2018 per l’istruzione”, elargito triennalmente dal Kiwanis Club di Berna. Oltre all’insegnamento teorico e pratico sullo strumento, la clarinettista ha sviluppato nel tempo un forte interesse verso le dinamiche della respirazione, soprattutto nei suoi risvolti fisiologici e psicologici, che l’hanno condotta a elaborare un richiestissimo workshop sull’argomento.

Il workshop di respirazione

“Il workshop nasce dall’interesse sviluppato per temi legati alla fisiologia e alla respirazione. Corsi specifici sull’argomento con professionisti di queste tematiche come Irène Spirgi-Gantert, Jörg Wetzel, Ermes Giussani e Rex Martin hanno fatto sì che l’interesse per queste tematiche di base rimanesse vivo e che io volessi andare sempre più a fondo a temi così delicati e importanti per il musicista-uomo

“Il workshop si divide in diverse parti, entrambe articolate come segue. Si parte da una breve base di teoria, mai affrontata come lezione frontale quanto invece come momento di gruppo dove ognuno porta le proprie esperienze per una crescita e un arricchimento collettivi. La teoria viene sviluppata e integrata poi da diversi esercizi pratici incentrati principalmente su 2 temi: una postura ergonomica e l’aria e la sua gestione.”

Perché un workshop di respirazione?

Citazione dal dossier di presentazione:

“Respirare è il primo atto che compiamo alla nascita e l’ultimo prima della morte. È un atto naturale: la respirazione scandisce tutto il corso della nostra vita. Respirare, inspirando ed espirando, per un musicista o un cantante significa mettere in vibrazione non soltanto lo strumento ma anche il proprio corpo: i due diventano un tutt’uno, muovendosi e risuonando all’unisono.

“Respirare liberamente implica il concetto di ‘spazio’: la mobilità delle coste e delle vertebre, il rilassamento delle spalle, il diaframma attivo e una certa consapevolezza dell’addome nel sostenere il respiro sono tutti elementi necessari e imprescindibili per una buona e corretta respirazione. Non esiste un solo, unico, assoluto modo di respirare: il nostro copro respira differentemente a seconda delle diverse situazioni che affronta e può compiere ogni azione conscia senza interrompere la respirazione. La postura è un fattore imprescindibile per una corretta respirazione”

L’universo artistico in cui si muove Elisa Marchetti si dimostra dunque estremamente ricco di sfumature: attività concertistica, insegnamento, ricerca. A queste, dovremmo anche aggiungere alcune partecipazioni discografiche e i suoi lavori da arrangiatrice. Un personaggio a tutto tondo, dunque, parte integrante della folta colonia di musicisti pinerolesi che tengono alta la bandiera del nostro territorio in giro per il mondo. La ringraziamo dunque per aver accettato l’invito a condividere con noi le sue esperienze, approfondendole attraverso l’intervista che ci ha gentilmente concesso.


Originaria del Pinerolese, per lavoro da qualche anno ti sei trasferita in Svizzera, dove sei docente in alcune importanti scuole di musica. Che cosa ti ha portata fuori dai confini nazionali?

Mi sono trasferita all’estero sette anni fa per proseguire gli studi. All’epoca non era ancora possibile specializzarsi a livello di Master musicale in Italia, ovvero una volta conseguita la Laurea Magistrale in Conservatorio si poteva proseguire con corsi di perfezionamento in qualche Accademia, ma non è la stessa cosa. Dopo la Laurea Magistrale mi sono quindi guardata intorno e ho scelto di proseguire gli studi all’estero, a Berna in particolare: io volevo studiare con Ernesto Molinari, che insegna sia clarinetto che clarinetto basso, e dopo aver passato l’esame di ammissione ho dapprima conseguito il Master of Arts in Music Performance e successivamente il Master of Arts in Music Pedagogy. L’ambiente di quell’Università mi piaceva molto e quindi ho scelto di completare a Berna entrambi i percorsi. Durante il secondo master ho iniziato a fare supplenze qua e là e ho scelto di rimanere all’estero. Ma ciò non vuole assolutamente dire che io abbia tagliato i ponti con l’Italia, anzi…

Da un punto di vista professionale, con ovvia focalizzazione sull’ambito musicale, che cosa hai trovato all’estero che in Italia non c’è e in che cosa invece ritieni che il nostro Paese costituisca ancora un modello da imitare?

Credo che l’Italia abbia una grande tradizione, non soltanto per quanto riguarda il “belcanto” ma anche per la cultura del “bel suono”. I miei anni di studio in Italia, soprattutto gli ultimi, sono stati scanditi dalla costante ricerca di quello che viene definito un “bel suono”, rotondo e caldo, mai sguaiato. Questo significa lavorare tanto sul proprio orecchio, abituarsi a ricercare una determinata qualità nel proprio timbro, e mantenere questa qualità nel tempo perfezionandola giorno dopo giorno. Questo penso sia proprio uno dei motivi per cui i musicisti italiani sono molto apprezzati anche all’estero. Un esempio tra i più recenti che mi viene in mente è che quest’anno il fagottista Andrea Cellacchi di Latina ha vinto il prestigioso ARD Music Competition, e la scorsa edizione vincitore di percussioni è stato Simone Rubino, ex allievo del Conservatorio di Torino. All’estero invece ho notato una cultura musicale più ampia, ovvero la musica viene vista come un patrimonio da tutelare e divulgare. Non è uno studio elitario. E non per forza chi studia vuole fare il musicista da grande. Una delle scuole in cui insegno, la Musikschule Aarberg, quest’anno per esempio ha scelto un motto che personalmente trovo molto significativo: “Musik für alle”, ovvero “musica per tutti”. Molte persone conoscono dei rudimenti di musica, anche solo poche basi, che vanno oltre le competenze sviluppate sui banchi di scuola; questa cosa in Italia si vede in misura molto minore. Credo che l’Italia abbia formato e formi tuttora ottimi musicisti, forse però potrebbe essere utile prendere esempio dall’estero per creare una cultura musicale di base più ampia.

Il tuo curriculum vanta già numerose esperienze importanti, sia come insegnante, sia come concertista. Quali sono stati i momenti che, fino ad ora, ritieni essere stati più importanti per la tua crescita professionale?

Sono profondamente convinta che un professionista, in ambito artistico, non sia solo frutto di tanto studio e di una forte passione, quanto anche degli incontri che fa durante il suo percorso. Quando sei allievo, l’insegnante giusto o sbagliato può fare davvero la differenza sul tuo cammino futuro. E io ne so qualcosa… Quando poi diventi insegnante a tua volta, se lo fai con vera passione per l’insegnamento, cerchi di fare la differenza con i tuoi allievi, trasmettendo loro la passione per la musica e aiutandoli a diventare la migliore versione musicale di loro stessi, settimana dopo settimana. Diciamo che se di soddisfazioni negli ultimi dieci anni me ne sono tolte parecchie, soprattutto sul palco, ciò che ha fatto veramente la differenza nella mia crescita professionale sono stati gli incontri con determinate persone. Potrei parlare per ore di tutte quelle persone che mi hanno aiutata a crescere professionalmente e vi annoierei a morte. Vorrei però citare qualcuno di loro o qualche momento. Sicuramente uno dei miei “grandi momenti” è stato l’incontro con Sandro Tognatti, che è andato ben oltre il suo ruolo di insegnante e che, appena diplomata, mi ha permesso di sedermi per la prima volta in orchestra in mezzo ai professionisti, insegnandomi anche il lavoro che sta dietro a ogni produzione. Una grossa spinta poi me l’ha sicuramente data l’inizio di un percorso di studi all’estero, dove sei lontano da casa, devi parlare una lingua straniera, non conosci nessuno e ti devi davvero rimboccare le maniche per dimostrare ogni giorno che meriti quel posto. Un passo fondamentale per la mia crescita è stato poi il quartetto di clarinetti “Quatuor Chouette”. È stata la mia prima attività cameristica “piccola” stabile e il primo progetto che ho sentito davvero mio. Fra lo studio in Hochschule e il lavoro in quartetto gli ultimi anni sono stati, a detta di molti, terreno fertile per una crescita musicale esponenziale da parte mia. “Quatuor Chouette” è stata anche la formazione che mi ha permesso di organizzare un progetto/evento interamente da sola, “Call for Scores” nel 2017, che ha raccolto composizioni originali da parte di compositori italiani ed esteri con seminario conclusivo e concerto finale a Milano. Di questo progetto ho curato interamente io l’organizzazione e mi ha dato la grande possibilità di crescere anche a livello manageriale. E poi i momenti importanti sono tutte le volte che entro in classe, sapendo che ogni giorno è una nuova avventura con i miei allievi, con nuovi brani, nuovi progressi e anche… nuovi problemi e insicurezze da risolvere. Ma noi ci prendiamo per mano e camminiamo fianco a fianco, senza paura, sul nostro lungo sentiero.

Com’è nata la tua passione per il clarinetto, in particolare per il clarinetto basso, argomento anche della tua tesi con cui ti sei diplomata ottenendo il massimo dei voti, la lode e la dignità di stampa?

Sono due passioni molto diverse fra loro. Se la passione per il clarinetto è nata di giorno in giorno con le ore di studio e i concerti, conoscendoci reciprocamente, la mia grande passione è sicuramente il clarinetto basso. Del clarinetto basso mi ha affascinata il timbro, prima ancora di vederlo. Ricordo che era la primavera del 2005 e io ero all’Auditorium “Agnelli” del Lingotto per sentire l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI. Al clarinetto basso quella sera c’era Daniele Titti, al quale anni dopo ho confessato quanta magia ci fosse stata per me in quel concerto. Stavano suonando “Un americano a Parigi” di George Gershwin e il clarinetto basso ha sei note (contate!) da solo. Io ho sentito quelle sei note e ho deciso che quello era lo strumento che volevo suonare da grande! Poi il caso ha voluto che quell’anno io abbia deciso di cambiare insegnante e fortunatamente abbia trovato un grande insegnante valsusino, Gianluca Calonghi, che a sua volta suonava il clarinetto basso e che quindi mi ha dato le prime nozioni. Scelta naturale per proseguire gli studi in Conservatorio è poi stato il “Cantelli” di Novara, dove insegna Roberto Bocchio, dal quale io sono successivamente andata a studiare. È andato poi da sé che la mia tesi del biennio fosse inerente al clarinetto basso e che gli studi siano proseguiti a Berna nella classe di Ernesto Molinari, che negli anni successivi mi ha aiutata a perfezionarmi non solo col clarinetto ma anche col clarinetto basso. Da allora non c’è concerto solistico dove non lo porti sul palco con me: almeno un brano in programma con questo strumento c’è sempre. Come dico ormai da anni, il clarinetto basso è il mio giocattolo preferito.

La didattica è probabilmente l’aspetto preponderante della tua attività musicale. Oltre a essere docente di clarinetto e sax, tieni degli interessanti seminari che si soffermano sul rapporto tra lo strumento e il corpo, unione che avviene per il tramite della respirazione. Qual è l’idea guida delle tue lezioni sull’argomento?

La respirazione è un atto naturale. Accade e basta. Accade quando nasciamo, ci accompagna per tutta la vita ed è l’ultima cosa che facciamo prima di morire. Oltre ad essere un’attività che ci accompagna per tutta la nostra vita, per i musicisti e i cantanti assume un valore davvero particolare perché una corretta respirazione, oltre a calmarci e ad aiutarci a trovare la concentrazione, aiuta a migliorare la qualità del proprio suono e della performance. L’unico strumento proprio dell’uomo è la voce, quindi già provando a cantare con una respirazione scarsa e una respirazione buona ci possiamo fare un’idea di quanto possa cambiare il suono prodotto. Questo principio però si applica in realtà a tutti gli strumenti: anche al violino, al pianoforte o alla batteria, che non sono strumenti a fiato. Questa è una cosa che ho trovato molto affascinante ed è il motivo che mi ha spinto nell’ultimo anno ad aprire il corso a strumentisti in generale, senza precluderlo a chi non suona strumenti a fiato. Nell’ultimo anno ho avuto infatti corsisti che suonavano le percussioni e anche qualche strumentista ad arco. Se però respirare è un atto naturale, suonare uno strumento non lo è, ed ecco che prendiamo inconsciamente piccoli vizi o difetti quando respiriamo. Quindi crediamo di respirare bene proprio perchè è un’attività normale, ma in realtà se ci analizziamo nel dettaglio vediamo che non è esattamente così. Il mio, più che un seminario, è un workshop, nel senso che io parlo in proporzione molto poco e i corsisti sono molto attivi. Se il fine ultimo è tornare a respirare nel modo più naturale possibile, per farlo non dico ai corsisti “devi fare così e cosà”. La mia idea di insegnamento in questo caso esula dalla lezione frontale e si basa molto sulla crescita collettiva e sullo sperimentare sul proprio corpo i cambiamenti. Lascio che ci sia grande confronto fra i corsisti; il mio ruolo è quello di aiutarli a trovare risposte quanto più corrette e, attraverso gli esercizi proposti, ascoltare il proprio corpo e la sua risposta, tornando ai naturali automatismi della respirazione. Lavoro con diverse fasce d’età a partire dai bambini, tarando il corso di volta in volta sull’età e sulle esigenze specifiche dei partecipanti. Inoltre alla fine prevedo sempre uno spazio dove ognuno può suonare qualcosa per ricevere un consiglio pratico ad personam oppure può esporre dubbi e fare ulteriori domande, ma la mia idea è che anche questa parte venga svolta collettivamente, in modo che tutti possano beneficiarne. L’idea di base quindi è mettere in luce aspetti più o meno noti di un atto naturale, per correggere a livello conscio piccoli difetti presi inconsciamente che impediscono il naturale svolgimento della respirazione.

A proposito invece della tua attività concertistica, alcuni anni fa ti abbiamo apprezzato moltissimo nel quartetto Quatuor Chouette, con il quale tenesti alcuni concerti in zona. Il quartetto, tutto femminile, ottenne anche molti riscontri in importanti concorsi. Stai ancora lavorando su quel progetto? Sarà possibile riascoltarti dal vivo a Pinerolo e dintorni nel prossimo futuro?

“Quatuor Chouette” è stato un bellissimo progetto che ha regalato a tutte noi parecchie soddisfazioni, e ricordo l’affetto che il pubblico pinerolese ci ha dimostrato ad ogni concerto. Purtroppo tutte le belle cose hanno una fine, e il mio percorso con “Quatuor Chouette” si è interrotto nel febbraio di quest’anno. E’ stata una scelta sofferta ma necessaria. Per rassicurare le persone che hanno seguito “Quatuor Chouette” in questi anni, il quartetto esiste ancora, con due ragazze nuove a sostituire me e la mia collega Angelica. A loro va il mio sincero in bocca al lupo per il futuro e… chissà che non possano tornare a suonare in zona! Per quanto riguarda me, sono sempre ben felice di tornare a esibirmi vicino a casa, e negli ultimi anni l’ho fatto più volte, oltre che col “Quatuor Chouette” anche con “Tandem Duo” con cui abbiamo portato sul palco una ventata di tango argentino e milonga, o da solista per la Giornata della Memoria al Museo dell’Emigrazione Piemontese. Le occasioni sono purtroppo poche, ma spero vivamente che ce ne possano essere di nuove prossimamente.

I tuoi primi incontri con la musica sono avvenuti all’interno dell’universo delle bande di paese, che qui nel Pinerolese hanno una tradizione molto radicata rispetto ad altri territori, sebbene non godano sempre della considerazione che meritano. Tu cosa ne pensi?

Io sono nata e cresciuta in banda, non mi sono mai vergognata di ammetterlo nemmeno come professionista, ed è un mondo che ancora oggi fa parte della mia vita, in Italia e all’estero, sia come musicista che in veste di direttore ospite. Penso che, nell’immaginario collettivo, l’idea della banda musicale sia rimasta purtroppo ferma a parecchi decenni fa, quando spesso e volentieri, al di là di poche qualificate realtà, la banda si limitava quasi esclusivamente a suonare le marce per le vie del paese accompagnando feste civili e religiose. Quasi un mero elemento di folklore. In realtà oggi è molto di più. Penso al mio paese, Frossasco, dove la banda ha una scuola di musica che offre una formazione musicale per qualsiasi fascia d’età, scevra dell’accademismo proprio dei Conservatori. Vengono organizzati regolarmente da anni Open Day in cui è possibile provare gratuitamente gli strumenti, conoscere gli insegnanti e quindi creare un primo contatto con la musica. Per citare di nuovo il “Quatuor Chouette”, ricordo di aver organizzato, proprio con la Filarmonica Pinerolese Frossasco, una prova aperta dove gli allievi della scuola di musica e i suonatori, anche provenienti da altre formazioni bandistiche, potevano assistere a una prova generale di un ensemble professionista e vedere come si lavora “dietro le quinte”. E queste sono solo alcune delle attività formative che oggi vengono offerte. Una cosa che mi piace sempre sottolineare è la sua funzione sociale: in banda si incontrano le generazioni e i mestieri, il ragazzino trova posto di fianco all’anziano, il musicista professionista si siede di fianco all’amatore e si lavora tutti insieme per ottenere il miglior risultato possibile, per suonare “insieme” nel vero senso della parola, non per essere 40/50 persone sedute nella stanza che suonano lo stesso brano. La banda è stata un’esperienza che per un periodo ho condiviso con mio padre, seduto qualche fila dietro di me; ci ho ritrovato ex-compagni di scuola che nel frattempo si sono avvicinati a questa bellissima realtà. Grazie alla banda ho trovato amici con cui, nonostante io viva all’estero, non si perde mai occasione per vedersi e passare del tempo insieme anche al di fuori della musica; non da ultimo, nel mondo della banda ho conosciuto colui che oggi è il mio compagno. Insomma, è una realtà bellissima che consiglio a chiunque di provare. Credo che l’idea della banda musicale che si ha “da fuori” debba smarcarsi da quella di formazione amatoriale e dilettantistica nell’accezione negativa del termine, per provare a guardarla davvero con gli occhi del XXI secolo, come un mondo fatto di impegno, passione, formazione, luogo d’incontro che trascende genere, età e professione, come momento di condivisione.

A quali progetti stai lavorando attualmente?

Attualmente sto prendendo parte a molti progetti scolastici, soprattutto quelli organizzati dalle mie scuole. A giugno ho concluso un lunghissimo progetto molto impegnativo che si chiama “Penelope’s Game”, un’opera scritta appositamente per la Musikschule Solothurn, dove ero supplente di clarinetto fino all’anno scorso, nella quale è stata data ai ragazzi la possibilità di cimentarsi nel mondo dell’opera e della sua realizzazione, con quattro rappresentazioni a fine giugno nel teatro d’opera cittadino. Quindi abbiamo fornito loro un’esperienza a 360° in questo mondo. Cantanti, coro e cast, orchestra e band erano interamente formati dagli studenti della scuola, con noi insegnanti come tutor e preparatori. Io sono stata una delle due preparatrici della sezione fiati dell’orchestra insieme alla collega di tromba: è stato una bellissima collaborazione dove io ho portato la mia esperienza come musicista di teatro d’opera e lei la sua in campo sinfonico, avendo più volte suonato anche con un’orchestra prestigiosa come i Berliner Symphoniker. Si parla di circa 75/80 ragazzi coinvolti, una trentina di insegnanti, 15/20 persone per costumi e scenografie, cinque persone in regia e quattro tecnici che hanno gestito microfoni, luci, cambio dei fondali e tutto quanto serve in un teatro. È stato un progetto molto bello ma che ha richiesto molte energie da parte di tutti, quindi quest’anno ho scelto di non partecipare all’esperienza di un musical in un’altra scuola. Dopo un progetto così impegnativo abbiamo tutti bisogno di rifiatare. Attualmente, al di fuori dei concerti e dell’insegnamento a scuola, sono principalmente impegnata con i workshop di respirazione sia in Italia che in Svizzera e come docente di musica da camera in Germania. C’è qualcos’altro che bolle in pentola, ma per scaramanzia non ne parlo…

Da professionista delle sette note, che senz’altro possiede una visione internazionale dell’argomento, ci fai un’ultima considerazione sullo stato di salute della musica nel 2019?

Diciamo che questo periodo storico è duro un po’ per tutti, e la musica non è esente. Pensiamo al fatto che in Italia negli ultimi anni diverse orchestre sono state chiuse, o ai musicisti che sono attualmente in una situazione di precariato, o ai corsi estivi che regolarmente da anni venivano organizzati, e ai quali partecipavo anch’io, che non sono più stati proposti per mancanza di iscrizioni. Ci sono però anche tanti segnali positivi. Mi riferisco a scuole di musica e allievi che non si accontentano più e che ricercano qualità negli insegnanti: spesso non basta più saper strimpellare uno strumento per poter insegnare al di fuori dell’ambito accademico, ma viene richiesta una preparazione sempre più alta. Negli ultimi anni in Italia è nato il brand “Made in Orchestra”, con il quale ho avuto il piacere di collaborare, per offrire contenuti gratuiti volti al perfezionamento strumentale o all’approfondimento a 360°: oltre a temi prettamente strumentali si parla di storia della musica, di brani di repertorio del singolo strumento, di gestione dell’ansia, di respirazione… E so che questi video, nati dall’idea di un ragazzo padovano e frutto dell’interessamento gratuito di docenti italiani, sono visti anche all’estero. Quindi benché non mi senta di affermare che il periodo sia roseo, non posso nemmeno dire che la tendenza sia negativa, anzi! Ovunque si vedono segnali più o meno grandi che tendono al miglioramento e allo sviluppo. Se è vero che una rondine non fa primavera, è anche vero che l’oceano è formato da tante piccole gocce d’acqua, e quindi tutte queste iniziative e attività, piccole o grandi che siano, mi danno una grande speranza per il futuro.


Ringraziamo Elisa per la sua disponibilità. Ricordiamo che chi volesse seguire la sua attività, in particolare rimanere aggiornato sulle date dei suoi seminari, esiste una pagina Facebook cui potete iscrivervi (https://www.facebook.com/elisamarchetticlarinetist/). Per farvi capire ancora meglio che cosa ha da offrire la sua incredibile sensibilità artistica, vi proponiamo invece la visione di alcuni filmati che immortalano le principali sfaccettature del suo universo sonoro.

Buona visione.

Ones

ones

Marco Ughetto, appassionato di musica e giornalismo, chitarrista e cantautore amatoriale, si laurea in Cinema al DAMS di Torino nel 2014, con una tesi sui rapporti tra cinema e cultura digitale. Nel 2002, insieme ad altri quattro amici, dà il via alla prima versione di Groovin' - il portale della musica nel Pinerolese.

http://groovin.eu

2 thoughts on “La “svizzera italiana” del clarinetto basso. Intervista a Elisa Marchetti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Groovin'