La natura, la luce e l’ombra. Intervista a Olmo

Tra i talenti che si sono rivelati in quest’ultimo scorcio di stagione musicale pinerolese, il più sorprendente è certamente quello di Olmo. Chi segue da vicino le sue vicende artistiche, probabilmente non si sarà stupito di vedere la trasformazione stilistica che ne ha segnato la recente evoluzione. Ma per chi l’aveva un po’ perso di vista, e l’aveva lasciato l’ultima volta dietro a piatti e tamburi, trovarlo su un palco importante come quello di ArtigianatOFF, nelle vesti di cantautore, accompagnato soltanto dal trasporto della sua voce e del suo pianoforte, mentre interpreta le sue canzoni con naturalezza e ironia, ma anche con profondità e intelligenza, è stato sicuramente qualcosa di inaspettato quanto sbalorditivo. La sua capacità di esplorare l’interiorità, e la delicatezza nel raccontare i sentimenti, vanno di pari passo con la lucidità nell’analizzare la società contemporanea, da punti di vista a tratti anche decisamente originali. Uno stile di scrittura maturo che stupisce sia rimasto sopito per così tanto tempo, forse ingabbiato da differenti urgenze creative. Non ci dilunghiamo nei nostri commenti personali in merito alla sua musica, soprattutto perché, visto lo spessore artistico e culturale di Olmo (al secolo Olmo Costa), abbiamo preferito che fosse lui a introdurci nel suo mondo, fatto al contempo di accurata osservazione esterna ed elegante introspezione.

Buona lettura!


Partiamo dalla fine. Il 4 settembre sei stato ad ArtigianatOFF dove hai condiviso il palco con artisti di un certo peso. Ci racconti come hai vissuto questa esperienza?


È stata una sorpresa che attendevo inconsapevolmente da tempo. Quando Matteo (Giai, organizzatore delle serate Artigianatoff!) mi ha chiamato chiedendomi se volevo aprire la serata prima di Giovanni Truppi, ho accolto con vero piacere l’invito. Prima della chiamata ci sono stati “segni” che mi indicavano che quello era un concerto da fare assolutamente, e il perché dovessi è stato chiarito da come mi son sentito portando questo nuovo me stesso su un palco. Mi sono sentito sereno, poco agitato, in connessione con un modo di comunicare che, quando c’è, mi fa sentire a casa.


Per chi non segue troppo da vicino le tue vicende artistiche, vederti sul palco in veste di pianista e cantautore è stata una bella sorpresa. Molti si ricordavano di te come batterista in ambito indie, tra l’elettropop dei Too Tiki e l’alternative degli Obomobo, tanto per citare due band di cui hai fatto parte. Oggi recuperi invece atmosfere intimistiche e acustiche in cui ti esprimi anche come autore delle tue canzoni. Come si è concretizzata questa metamorfosi?


Una risposta esaustiva a questa domanda richiederebbe noiosissime ore di fatti personali nella mia vita che, concatenati, porterebbero ad una risposta davvero completa. Ma si può riassumere così: le band di cui ho fatto parte hanno avuto un inizio e una fine, e so di aver partecipato attivamente ad entrambi i momenti. Nonostante avessi con loro un ruolo importante (sia come batterista che come arrangiatore e compositore), col senno di poi credo non mi sentissi pienamente libero di esprimere qualcosa fino in fondo. Il problema è che non sapevo neanche bene cosa volessi dire. Ho iniziato a scrivere questi pezzi circa due anni fa, dopo aver osservato passare un grande ciclo della mia vita, e ho trovato una profonda naturalezza nello scegliere questa forma espressiva semplice e diretta, non distratta (per ora) da suoni cool e arrangiamenti super moderni. Mi sono sempre vergognato della mia voce, dei testi in italiano e della mia ignoranza musicale verso uno strumento “serio” come il pianoforte. Come dico nel pezzo con cui apro i concerti “non sono un gran cantante, non sono un gran pianista” e questo è totalmente vero, ma è curiosamente anche la forma che, alla fine, si è dimostrata più adatta a parlare di me e delle cose che vivo, e mi consente di farlo nel modo più nudo ed esposto a me possibile.


Che musica ascolta Olmo? Quali sono i tuoi modelli di riferimento?


Ammetto di essere poco affamato di musica in questi tempi. Lo sono stato, come tutti, da ragazzo, fagocitando ore ed ore di artisti di quegli anni (Radiohead, Björk, Sigur Ros, la scena elettronica inglese anni ’90, Jamiroquai, la scena torinese, i grandi classici e così via…). Direi oggi che mi piace ascoltare le cose che mi comunicano qualcosa di personale, magari anche dei generi più disparati, ma mi piace ascoltare musica che se ne frega di essere per forza ammiccante e che non punti tutto sulla coolness o sulla modernità, che non debba per forza scandalizzare. E che se invece fa tutto questo, lo fa perché l’artista esprime semplicemente se stesso senza filtri, diretto. Sento la distanza da se stessi come una distanza dalla musica, per il resto ogni cosa ritengo abbia grande valore artistico. Per dire alcuni nomi che mi vengono in mente ora: mi è piaciuto molto l’ultimo disco di Brunori Sas, ascolto spesso Thomas Dybdahl, vado matto per il Fado di Carminho (cantante strabiliante portoghese), ho ascoltato molto Rhye, un cantante con la voce iper femminile, mi galvanizzo per i cavalli puro sangue come i “Die Antword”, e sono stato colpito anche io dal fascino sonoro e stilistico della super acclamata Billie Eilish, ma più spesso amo risuonare con le sensibilità musicali del passato italiane: Lucio Dalla e Rino Gaetano su tutti.


Olmo, oltre a essere il tuo nome di battesimo, è quello di un albero a cui fai più volte riferimento per una simbologia che sostieni essere vicina al tuo essere. Quali sono le caratteristiche dell’olmo che maggiormente ti rappresentano e quali hanno avuto più influenza sulla tua musica? Più in generale, mi sembra che tu abbia un rapporto speciale con la natura. Quanto conta per te?


Ho scoperto da poco che il nome Olmo era il nome che mia zia avrebbe dato a mia cugina se fosse nata maschio. Io e mia cugina siamo nati a pochissime ore di distanza. Ho quindi “rubato” questo nome e ho vissuto ignorandone a lungo la natura. L’Olmo è considerato un albero sacro in molte mitologie di diverse parti del mondo, ed è associato spesso alla Dea, la Femminilità Sacra. Questo ad esempio è uno dei lati di me che sto riscoprendo negli ultimi anni, il mio femminile. Chissà che questo “furto” a mia cugina non sia stata un occasione per fare pace con il mio femminile? Forse da qui la mia voce sottile e le atmosfere dolci ed accoglienti di alcuni brani, o la voglia di andare in profondità nelle proprie esperienze; più metto in luce ciò che mi era nascosto più sento di essere in pace e connesso. Le radici del nome della pianta risalgono addirittura ai fondamenti della antichissima religione Zoroastriana. Il nome Olmo deriva da colui che apparve a Zoroastro, Ahura Mazda – il dio supremo del bene – un termine che diventa Ohrmazd in lingua Pahlavi, Hirmiz nel Persiano medio dei Manichei, e Hormoz nel Persiano moderno. Io mi sento molto vicino al concetto di luce e di ombra, non come elementi in contrasto ma in profonda relazione. La luce è il mezzo attraverso il quale vediamo ciò che prima non eravamo pronti a vedere, l’ombra protegge dal giudizio o dalle paure che spesso destiniamo al mistero.
La Natura è, per definizione, vita. E per questo credo che quando siamo abbastanza umili da restare con lei, quello che ci regala è una pace “inscalfibile”. Io sono nato in queste valli, da bambino ho avuto la possibilità di passare molto tempo con animali, piante, ho osservato le curiosità, le stagioni, le relazioni che si creano in natura. La natura saremmo noi se smettessimo di crederci diversi, separati, da essa. È una instancabile e paziente maestra, che insegna a chi ha il tempo di ascoltarla. Sono stato anni in città, e la distanza dalla natura mi ha concesso di capire l’incredibile potenza che ha un prato battuto dal vento.


Parliamo delle tue canzoni. In “Luce” affronti un dialogo contraddittorio con la tua interiorità. Come sono le tue relazioni con il lato più spirituale della vita?


Quel brano è il primo pezzo che ho scritto, due anni fa. Originariamente era in inglese, ma una amica mi ha fatto notare l’ovvio: quando canto in italiano sono me stesso, quando canto in inglese sono un attore passabile. Perciò ho scelto, per quanto mi è possibile, di smettere di recitare. È un brano nato in un momento di rivoluzione, di crisi catartica, uno stratagemma per parlare con la propria fiamma che credevo smarrita, che credevo di aver tradito, un modo per perdonarsi il dolore che a volte ci si causa per mancanza di fede nella parte più pura e intangibile di noi stessi. Nei pezzi scritti in questi anni c’è tutta la mia vita finora, inclusa la scoperta della spiritualità, qualsiasi sia l’accezione che ognuno di noi dà a questa parola. Sono stato un ateo convinto, fortemente critico verso ogni forma di religione, sono stato molto arrabbiato con la fede in Dio. Poi ho capito che la religione è solamente il tentativo maldestro e rozzo di contenere con dei dogmi finiti uno spazio infinito, che è la spiritualità. Ho smesso di odiare la religione quando ho capito, grazie ad un incontro prezioso e controverso di cui non parlerò qui, che la parola “Dio” o la parola “Demonio” erano usate da me in modo errato, erano usate o abusate in modo tale da tenere fuori da sé, fuori dall’uomo, l’aspetto divino. La spiritualità è presa di coscienza di Sè, e cosa c’è di più sorprendente di scoprire di essere seduti su un tesoro da tutta la vita?


In “Mi avevi convinto” affronti il tema del lavoro, visto come una sorta di gabbia dorata, una prigione invisibile che sembra riproporre una chiave di lettura contemporanea e originale della lotta di classe. Può esserci, secondo la tua visione, una via d’uscita?

Dal mio punto di vista, il lavoro è, nella versione distorta attuale, una delle droghe con cui narcotizziamo il senso di disagio del non sapere chi siamo pienamente. Contrariamente ad altre sostanze, è vista con enorme favore dalla classe dominante, che trae infinito vantaggio dalla convinzione delle masse del fatto che il lavoro sia il nostro status, lavoro ergo sum. E non è solo una questione di soldi, è proprio una questione di recinto. Una pecora si sente al sicuro in un recinto, fuori non saprebbe chi è. Noi oggi siamo pecore da macello, e desideriamo ardentemente umiliare la nostra natura più profonda pur di rispondere alla aspettativa di bravi lavoratori/consumatori responsabili. Ho vissuto degli anni in cui credevo ciecamente nella visione di me stesso come vittima inerme. Più rafforzavo questa visione, più paradossalmente lasciavo che mi venisse fatta qualsiasi cosa. Accettavo paghe ridicole, umiliazioni, castrazioni. Tutto in nome del fatto che volevo rispondere alle aspettative della società, volevo apparire “giusto” agli occhi delle persone che amo, volevo essere amato, e la condizione era umiliare me stesso. Ho capito in seguito che era la parte più egocentrica di me a tenermi lì, e per quanto sia doloroso, ho dovuto accettare di essere sofferente per mia scelta. Una via d’uscita c’è sempre. ma è prima di tutto individuale. È chiaro che in un mondo ideale, una presa di coscienza collettiva ridisegnerebbe le regole secondo principi di Amore, non di competizione. Ma se siamo qui tutti in questo momento a confrontarci con questa realtà è perché dobbiamo ancora comprenderla. Ho fede nel fatto che in futuro arriveremo ad amarci di più, a comprenderci più a fondo. La gabbia dorata del lavoro svanirà come neve al sole non appena smetteremo di darle potere, spero il lavoro si trasformi in uno strumento utile alla realizzazione di se stessi intesi come esseri in relazione e individuali al contempo.


In “Bla Bla Bla” metti sotto accusa lo sterile chiacchiericcio che nel mondo contemporaneo si fa di ogni argomento. Tutti allenatori, senza aver mai davvero “imparato a giocare”. Mi sembra un’analisi che calza a pennello rispetto alle caratteristiche della comunicazione contemporanea imperniata sui social network. Qual è la tua opinione in merito? Come sono i tuoi rapporti con i social?


Sui social tutti quanti sperimentiamo quotidianamente la frustrazione nel percepire intere parti della popolazione che la pensano in maniera diametralmente opposta a noi. Non capiamo come sia possibile che molte persone pensino o agiscano in un certo modo. Attualmente sui social troviamo rifugio solo facendo squadra “contro” quello che non comprendiamo, oppure prendendo le distanze da ciò che giudichiamo “il male”. La soluzione che una mente duale sbilanciata verso troppo principio maschile può proporre al dilemma della diversità è infatti sempre e solo una, l’omologazione; il raggiungimento di un pensiero unico che domini tutti e tutto e metta ordine. Questo è un atteggiamento tanto di Destra quanto di Sinistra (per quanto valgono queste parole oggi), ed è la quintessenza del fascismo in senso globale: agisce indifferentemente e in modo subdolo su chiunque: uomini e donne, ricchi e poveri, acculturati ed ignoranti. I social non sono il male, sono solo lo strumento attraverso cui noi sperimentiamo, attualmente, questo principio maschile in disequilibrio, che porta a separazione. Non sono contro i social tanto quanto non sono contro l’invenzione della ruota, sta di fatto però che gli strumenti sono i mezzi attraverso cui la mente umana agisce sul mondo, e uno strumento potente richiede una consapevolezza adeguata, al momento insufficiente a favorire il lato positivo dei social.
Personalmente passo molto tempo sui social, ma cerco, con difficoltà, di evitare di innescare “battaglie”. Spesso pecco di arroganza esponendo in modo forse troppo assertivo la mia idea su un determinato argomento, ma ritengo il tutto sia anche una gran palestra per imparare a non giudicare, se si ha la pazienza di non voler convincere nessuno.

Bla Bla Bla – Olmo (Live @ ArtigianatOFF)


Le tue canzoni, al momento, sono ascoltabili unicamente ai concerti o tramite i “link-foglia”? Puoi spiegarci di cosa si tratta? Quali saranno i prossimi passi per diffondere la tua musica? Hai in mente qualche progetto discografico?


Nonostante abbia aperto da poco una pagina Facebook (https://www.facebook.com/OLMO-102427057786884/) per radunare da qualche parte chi è interessato a questo albero cantante, per ora ho deciso di non pubblicare niente di completo sui social. Siamo abituati a consumare con una voracità e una disattenzione tale che non desidero questo per il mio lavoro. Più avanti credo sarà un passo necessario, ma mi piacerebbe godermi questi albori basando la diffusione dei pezzi tramite un rapporto semplice come quello di un concerto. Per un po’ prediligerò micro-concerti in acustico in posti inusuali per poche persone, in modo da essere davvero in relazione con chi fosse presente. Vengono fuori scambi di battute, risate, commenti, critiche, e tutto questo concorre a creare una serata in cui uno ha la sensazione che sia successo qualcosa di unico, me compreso. A chi voglia portarsi a casa un pezzo della serata distribuisco foglie di Olmo che contengono link per accedere a un pezzo, ma in una modalità diversa dal solito, più intima. Lo faccio secondo una formula ad offerta libera, in modo da non vincolare la circolazione dei pezzi e la voglia di risentirli a una questione economica.


Tu lavori per la Sing Sing, un’azienda di produzioni musicali. Di cosa ti occupi precisamente? Quali differenze ci sono tra fare musica per te stesso e lavorare nel settore, producendo o sviluppando idee di altri (o finalizzando le tue alle esigenze di una committenza terza)?


La Sing Sing si occupa di ogni aspetto inerente la colonna sonora nelle pubblicità, e io mi occupo in particolare di composizione e arrangiamento dei brani che di volta in volta ci vengono richiesti dalle agenzie pubblicitarie, che siano questi brani originali o cover di brani già esistenti. È un lavoro strano ma stimolante, perché ti costringe a essere molte tipologie di musicista cercando di avere comunque un’impronta personale. Ti porta a studiare infiniti stili e generi musicali, diverse soluzioni timbriche, ti costringe a stare al passo con le tendenze, diventi un trasformista che si immedesima nel linguaggio musicale utile al film, cercando però di essere credibile e personale allo stesso tempo. Il suo limite è appunto l’altro lato della medaglia: i paletti sono necessità esterne e non interne. Fare musica per altri è artigianato, farla per se stessi è arte. E sorprendentemente questo non vuol dire che una modalità sia “più” dell’altra. Sono sicuro che ci sono musiche fatte per lavoro che possono comunicare a qualcuno molto di più di quelle fatte per passione e viceversa. È una bella opportunità provare a fare entrambe e vedere come va.


Un’ultima domanda. Da anni si ha l’abitudine di demonizzare il mondo della discografia contemporanea e della musica di oggi in genere, evidenziandone sempre i lati di decadenza. Tu che frequenti la musica da professionista, quale analisi ti senti di fare in merito?


Il discorso è lungo ovviamente, ma la verità è che ogni giorno escono migliaia di dischi e di artisti nuovi. Il prezzo della musica è bassissimo, e la musica non è mai stata così accessibile. Sulla carta sarebbe il momento più entusiasmante della storia della musica. Questo però, nel mondo in cui per ora viviamo, corrisponde a una “offerta” dannatamente superiore alla “domanda”. Abbiamo così poco tempo per sederci in silenzio e ascoltarci un bel disco, la quantità di musica prodotta supera di gran lunga le possibilità che ognuno di noi ha di stare dietro a ciò che esce. Un disequilibrio tale genera, in un mondo “economicus”, una tendenza alla competizione sfrenata per scalare le classifiche per poter vendere meglio. Un sistema che porta sicuramente moltissima musica, e questo lo trovo stimolante a prescindere, ma che purtroppo ha come effetto collaterale una rassicurante e cauta omologazione del suoni e dei contenuti a discapito di una urgenza comunicativa reale. Se quest’anno ha “funzionato” un determinato stile musicale, stai certo che l’anno prossimo moltissimi usciranno con dischi simili a quelli che hanno sbancato. Dal lato musicista questo è un forte deterrente a sentirsi liberi di fare ciò che si sente. La domanda più frequente negli studi di registrazione è “funzionerà?” E questa è ovviamente un’occasione persa per esporre un pensiero originale al panorama musicale. Ci sono modelli come quello francese che hanno fatto leggi e previsto sovvenzioni per la scena musicale nazionale, e questo genera tante eccellenze sia nel mondo mainstream sia in quello di nicchia senza metterli in competizione tra loro, ma è una questione di intenti e di soldi. Non tutte le nazioni possono beneficiare di investimenti sulla cultura e non tutte le nazioni proteggono la cultura come bene primario. Va anche detto che non tutte le nazioni hanno strascichi consistenti di colonialismo che generano utili extra da reinvestire liberamente. ma qui è il mio lato polemico che si fa spazio… Seguo quindi ciò che esce con la speranza di far rimanere nel setaccio perle preziose di umanità e di genio. Credo sia un momento storico avvincente da vivere, di forti contrasti, in cui ogni giorno ci si può imbattere in tanta musica dozzinale ma al contempo possono uscire magnifiche perle rare, basta solo voler scavare un po’.


Salutiamo Olmo e lo ringraziamo per aver voluto condividere con noi il suo pensiero universale. Al momento la sua musica rimane relegata alla dimensione live, e l’unico modo per poterla ascoltare è proprio quella della compartecipazione ai suoi concerti. Ma non necessariamente questo è un male. Forse proprio perché, come ci ha spiegato lo stesso Olmo, è nel contesto dal vivo che le vibrazioni connesse alle sue peculiarità compositive e interpretative meglio sanno amplificarsi e connettersi, “risuonare” direbbe lui, con chi ascolta, in un intenso interscambio emotivo. Se sarete disposti a sintonizzarvi sulle sue frequenze, e ad aprire testa e cuore, avrete l’opportunità di vivere per un attimo un’esperienza che vi farà crescere.

Alla prossima.

Ones

ones

Marco Ughetto, appassionato di musica e giornalismo, chitarrista e cantautore amatoriale, si laurea in Cinema al DAMS di Torino nel 2014, con una tesi sui rapporti tra cinema e cultura digitale. Nel 2002, insieme ad altri quattro amici, dà il via alla prima versione di Groovin' - il portale della musica nel Pinerolese.

http://groovin.eu

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