Avanguardia e sperimentazione: Marco di Castri racconta i Dedalus

Per la musica italiana, gli anni Settanta sono stati una sorta di età dell’oro. Il periodo del rock progressivo, più o meno collocabile nella prima metà del decennio, fu attraversato da un fermento artistico irripetibile. In quell’ambito si formarono band e musicisti che hanno segnato indelebilmente la storia nostrana. Gruppi dalla carriera duratura e di grande successo, acclamati cantautori e session men che risulteranno poi fondamentali per molti artisti delle generazioni successive. Ma ciò che contraddistinse quel periodo così esaltante fu la diffusione capillare del fervore creativo. Furono infatti innumerevoli le formazioni che si accodarono ai nomi più noti, materializzando un’eccitazione immaginifica senza pari. Sparse su tutto il territorio nazionale, ognuna di esse seppe perseguire strade originali, personali, caratterizzate da un’estrema libertà espressiva. Band, talvolta semi-sconosciute, che seppero comunque ritagliarsi uno spazio importante, anche per l’attenzione sempre ai massimi livelli che pubblico e organizzatori riservavano alle idee innovative. Gruppi e artisti che spesso non andarono oltre il primo disco, i cui pochissimi esemplari stampati sono oggi ricercati dai collezionisti di mezzo mondo.

Non sono in molti a sapere che anche il nostro territorio ebbe la sua parte importante nelle vicende del progressive italiano. Intorno al 1972, infatti, a Pinerolo nacquero i Dedalus, una band per la quale, per altro, la definizione di prog-rock va davvero stretta. Pur venendo inclusi spesso nelle antologie di genere, infatti, il loro percorso va ben al di là di ogni qualsivoglia tentativo di riduzione tassonomica. Se l’improvvisazione, elemento caratterizzante dell’approccio compositivo dei Dedalus, potrebbe avvicinarli al macrocosmo del jazz, la sperimentazione avanguardista e la trasversalità con cui hanno sondato le potenzialità delle sette note, li colloca al di fuori di qualsiasi possibile catalogazione. Jazz-rock, classica, musica concreta, elettronica, musica popolare. Ognuna di queste forme infatti è stata, prima o dopo, affrontata dai Dedalus, attraverso riletture che marcarono la loro totale indipendenza rispetto a qualunque condizionamento artistico o commerciale.

I suoi componenti erano polistrumentisti straordinari: Fiorenzo Bonansone, violoncellista e tastierista (nel senso più ampio del termine); i fratelli Furio e Marco di Castri (non è un errore, la particella del cognome è minuscola anche all’anagrafe!), il primo al basso, il secondo indifferentemente a sax e chitarre; il batterista Enrico Grosso. Virtuosi ognuno nel proprio campo, tutti mossi dall’implacabile spirito della ricerca e della scoperta, diedero vita a un gruppo più unico che raro. Intanto perché la preparazione dei quattro era di altissimo livello. Ma anche perché non erano secondarie alcune spiccate capacità ingegneristiche. Non furono pochi i dispositivi auto-costruiti, utilizzati in dischi e concerti, come inediti sintetizzatori o apparecchiature per l’effettistica. Si pensi al “violoncello modificato”, con “le quattro corde amplificate da quattro rivelatori piezoelettrici indipendenti” (cit. da “Le ricordanze”, AMS Records, 2017); oppure all’equalizzatore CT6; o al mitologico “Sint”. Strumenti realizzati con la fondamentale partecipazione di Ennio Bonansone, fratello di Fiorenzo – nonché mio insegnante di Educazione Tecnica alle medie, ma questo è un dettaglio di poco conto – e delle sue grandi conoscenze in campo tecnologico. Senza parlare poi del plastubofono – un tubo di plastica con bocchino da clarinetto – delle “chitarre piegate” e altre invenzioni apparentemente bizzarre. Un “bestiario” surreale quanto coerente, plasmato sulla insopprimibile necessità di sondare vie espressive inesplorate e innovative.

le ricordanze dedalus the complete recordings 1973-2015
Copertina di “Le ricordanze – The Complete Recording 1973-2015”, raccolta antologica dei Dedalus

In questo modo, la sperimentazione armonica si fondeva con quella timbrica e quella tecnologica, in un universo sonoro affascinante e inconsueto. Se gli esordi furono più prossimi al prog strumentale di gruppi come Soft Machine e Nucleus, già nel secondo album l’avanguardia e la musica concreta apparivano come le linee stilistiche prevalenti. Se avrete l’occasione di recuperare il già citato cofanetto “Le ricordanze”, uscito nel 2017 con l’opera omnia dei Dedalus, vi accorgerete di come il loro percorso si sia poi arricchito ulteriormente nel corso dei decenni successivi. Un tracciato estetico difficilmente descrivibile in poche righe, che li colloca nell’olimpo della musica contemporanea nazionale e internazionale.

Per farci raccontare la parabola dei Dedalus abbiamo invitato Marco di Castri a ripercorrere con noi i passaggi fondamentali della storia della band.


Buongiorno Marco, partiamo dall’inizio. Anzi da prima. Tutte le biografie più o meno ufficiali dei Dedalus danno Pinerolo come luogo di nascita. Ma non tutti eravate originari della cittadina piemontese. Ad esempio, lei e suo fratello Furio siete nati a Milano. Com’è che le vostre strade si sono incrociate proprio a Pinerolo?


È stato grazie a un caro amico, Maurizio Gribaudi, oggi ricercatore all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, il quale mi aveva parlato di un violoncellista che con lui e un musicista da poco scomparso, Mario Tavella, cercava di mettere su a Pinerolo un gruppo per suonare un repertorio di musica pop. Mancava appunto un chitarrista. È così che ho conosciuto il violoncellista Fiorenzo Bonansone. Con lui poi nacque l’idea di formare un gruppo per suonare musica nostra. Mario Tavella venne sostituito da mio fratello Furio e al gruppo si aggiunse poi il batterista Enrico Grosso. Pochi anni dopo siamo andati ad abitare, per la precisione a Costagrande, in un rustico con una meravigliosa vista sul Monviso.


Come nacque l’idea di una band così fuori dagli schemi che, anche in un’epoca già di per sé caratterizzata da una grande libertà espressiva, riusciva comunque a risultare estremamente innovativa? Ci fa un riepilogo biografico di come si sono originati i Dedalus?

Cito dal nostro libro “Le ricordanze”, allegato al cofanetto “Dedalus – The Complete Recording 1973-2015”:

“Quando entro nella cantina della centrale elettrica, Fiorenzo è seduto dietro il suo strumento con la pipa tra i denti, la barba nera folta e gli occhi che strizza di tanto in tanto dietro un paio di occhiali da miope. Allora non lo potevo sapere, ma quell’atteggiamento, quella posizione dietro lo strumento, quei gesti dell’archetto e del corpo, erano la prima rappresentazione sensibile, fisica, di un mondo che non conoscevo e che entrava nella mia vita modificandola profondamente. È da lì che in breve, con una rapidità che ha del prodigioso, si concretizza la voglia di mettere su un gruppo con musica finalmente nostra.


(Dalla testimonianza di Fiorenzo Bonansone, ibidem: “Venne Marco e provammo non ricordo più che cosa. Fu una jam in cui saltando da un’idea, da un tema all’altro e improvvisandoci su, fu chiaro a tutti che era nato un gruppo, che ora si poteva pensare di svilupparlo, che c’erano i presupposti… ma: il travaglio costitutivo non era finito! Marco aveva un fratello, Furio, che avrebbe avuto piacere di provare…”)

“Furio fa enormi progressi al basso, io ho ricomperato il tenore (che nel frattempo mi era stato rubato). Fiorenzo, con l’aiuto di suo fratello Ennio – che diventerà un elemento importante nella storia di Dedalus – ha costruito un violoncello elettrificato che collegato a un’eco a nastro produce suoni molto interessanti. Ci manca il batterista per formare un quartetto. Siamo agli inizi del 1973, e finalmente il batterista arriva. Enrico sembra il tipo giusto fin dalle prime prove. A primavera abbiamo il primo pezzo completo composto da noi. Lo registriamo su una bobina e lo spediamo al Festival di Avanguardia e Nuove Tendenze di Napoli, che pochi giorni dopo ci inserisce in concorso. Prima di partire per Napoli, presentiamo la nostra musica al direttore della Fonit Cetra di Torino che in quel periodo sta producendo i primi LP di alcuni gruppi musicali torinesi. Il direttore ci riceve nel suo ufficio. Alla fine dell’ascolto ci dà un consiglio: “La vostra musica è troppo difficile. Se mi permettete la metafora, è come se voi suonaste dal settimo piano per un pubblico che sta al piano terra. Scendete di qualche piano e poi ne potremmo riparlare”.


“In “Dedalus” nel 1973 confluivano diverse tendenze musicali a loro volta frutto delle esperienze di ciascuno dei suoi componenti. Furio ed io avevamo percorso le stesse strade a partire da quando eravamo bambini, fino a vivere assieme la fase più ricca della nostra crescita musicale, quella che va dalla scoperta del John Coltrane di “A Love Supreme”, di Charles Mingus, fino all’esplosione del jazz rock di Miles Davis, dei Weather Report, dei Nucleus, dei Soft Machine, senza dimenticare i Pink Floyd, la Mahavishnu Orchestra, il free jazz di Archie Sheep e il grande Frank Zappa. Grazie a Zappa e a uno straordinario documentario su Pierre Henry visto alla Mostra del Cinema di Venezia, avevo scoperto musicisti come Edgard Varèse e l’esistenza della musica concreta. Anni incredibilmente ricchi di nuove idee che si sovrapponevano a una velocità impressionante. Oggi sembra incredibile che senza Internet e smartphone, allora si potesse essere interconnessi con il mondo intero. La facilità con cui si potevano fare nuove esperienze e nuove conoscenze era pari a quella di oggi, se non superiore.”

“Fiorenzo, il più “anziano” del gruppo (22 anni), aveva una storia musicale prevalentemente di tipo classico e ci apriva una porta sul mondo della musica contemporanea. Il suo strumento non solo introduceva nuove sonorità nella musica rock e jazz, ma faceva entrare nel gioco compositivo e improvvisativo lo sterminato mondo della musica cosiddetta “colta”. Tutti e quattro eravamo comunque d’accordo sull’importanza dell’improvvisazione. Quando ci trovavamo per provare ci lanciavamo in lunghe improvvisazioni alla ricerca di combinazioni, temi o accordi che potessero trasformarsi in nuove composizioni. In quelle sessioni di prove l’apporto di Fiorenzo era molto stimolante. Possedeva la grande capacità di non essere mai banale o semplicemente imitativo. Proponeva spesso combinazioni di note al pianoforte che uscivano dagli schemi consueti e che, pur potendo suonare al nostro orecchio come sgradevoli o complesse, ci spingevano a rispondere con note meno scontate, come dovrebbe avvenire quando ci si trova in un processo di ricerca e di costruzione comune. Ricerca, questa era la parola. Tutti eravamo d’accordo: non volevamo copiare o rifare quanto facevano gli altri ma sperimentare, anche a costo di percorrere strade pericolose, pericolose in termini di commerciabilità.”


Ha detto che provavate nella cantina di una centrale elettrica. Che ricordi ha di quegli esordi? Quali sensazioni si porta dietro ancora oggi?


Be’ per noi era posto meraviglioso dove potevamo suonare e provare in totale libertà. Trovarsi assieme per suonare a quel tempo era molto di più: era stare assieme, condividere le nostre emozioni, parlare di tutto quello che ci passava per la testa, mangiare e bere assieme, conoscere gente nuova, ragazze, perdere tempo.

Tappa fondamentale per la vostra affermazione fu la partecipazione al Festival di Avanguardia e Nuove Tendenze di Napoli nel 1973. Grazie al successo ottenuto, furono molte le etichette disposte a offrirvi un contratto. Cosa vi fece propendere per la Trident (risultando, per altro, l’unica band di sempre ad aver registrato due album per questa piccola etichetta milanese, fondamentale per la storia della musica prog)?

Dal racconto di Fiorenzo: “Ricordo il viaggio con mio fratello sulla Opel coupé (e in parte sulla nostra Mini Minor) prestataci dal padre di Marco, l’arrivo alla Mostra d’Oltremare a Napoli Fuorigrotta. E poi l’attesa, gli esercizi di tecnica al violoncello, il consiglio, sempre di papà di Castri, di farsi un bicchierino di brandy per allentare la tensione.
Poi il palco, migliaia di persone e un sacco di gruppi che vale la pena di ricordare, a testimonianza dell’apertura dimostrata dagli organizzatori, che accolsero nella stessa rassegna, senza preclusioni, musicisti provenienti da ambiti anche molto diversi:
Festa Mobile – Dedalus – Rinomata Vinicola Torre Quarta – Il Paese dei Balocchi – Alan Sorrenti – Quella Vecchia Locanda – Vince Tempera – La Fine Del Libro – Alberomotore – Saint Just – Semiramis – Bravo Reverendo Reebman – Paradiso a Basso Prezzo – Abramo Lincoln – Oro – Patty Pravo – Alusa Fallax – Riccardo Cocciante – Fabio Celi e gli Infermieri – Antonello Venditti – Rustichelli e Bordini – Living Music – Museo Rosenbach – Rovescio della Medaglia – L’Uovo di Colombo – Perigeo – Maurizio Monti – Simon Luca – Francesco De Gregori – Cervello – Piazza Delle Erbe – Primo Angolo a Destra – Free Love.


Mi limiterò a ricordare un particolare interessante, anche perché risponde a una domanda che più volte ci è stata fatta. Quando, dopo la seconda esibizione, scendemmo dal palco, trovammo ad attenderci gli agenti di quelle che allora erano le più importanti etichette italiane: RCA Italiana, CBS, Ricordi e Phonogram. Noi, messi sull’avviso da amici e colleghi, pensammo bene di prendere tempo e non ci impegnammo con nessuno, rimanendo disponibili a valutare proposte future. Non ricordo quanti mesi dopo, facemmo un provino alla RCA, che andò bene, ma anche in questo caso non firmammo alcunché. Temevamo, credo non a torto, i tipici contratti capestro, che ci avrebbero legati a una casa per chissà quanti anni, senza d’altra parte offrirci nessuna garanzia di lavoro. Fu per questo che preferimmo stipulare un contratto con un’etichetta giovane e indipendente, che mostrava di interessarsi ai gruppi emergenti e ci sembrava (ci sembrava!) poco condizionata dal mercato. Due anni dopo, quando la Trident fallì facendoci tra l’altro perdere un bel po’ di soldi, capimmo che probabilmente avevamo sbagliato!”


Nello stesso anno arriva l’album d’esordio. A un primo ascolto la tentazione è quello di catalogarlo nel jazz-rock, come tante produzioni dell’epoca. Ma a distinguerlo sono sicuramente alcuni momenti estremamente sperimentali che lo avvicinano già all’avanguardia, poi linea stilistica prevalente del secondo disco. Come conciliavate questi due mondi espressivi? Chi tra di voi propendeva più per un approccio jazzistico e chi per sondare i complicati sentieri dell’avanguardia?


(Testimonianza di Bonansone) Si trattava, nei primi giorni, di conoscersi e studiarsi un po’, di provare disordinatamente ciò che di volta in volta saltava in mente a ciascuno, metter insieme il buono a cercare di arrivare a qualcosa che potesse essere… un pezzo. La fase fu divertente e durò non ricordo quanto, un mese, forse due o tre. Risultati convincenti, pochi. Intanto si ascoltava musica, buon rock e jazz-rock inglese: Gentle Giant, King Crimson, Soft Machine, Nucleus; ma anche Blood, Sweat & Tears, Herbie Hancock, John McLaughlin, Weather Report, e soprattutto: Ornette Coleman, John Coltrane, Cecil Taylor, Archie Shepp, Albert Ayler, Eric Dolphy e decine, forse centinaia, di altri lungo tutta la storia del Jazz.

La situazione era stimolante, perché ascoltare o riascoltare insieme cose che già erano patrimonio di qualcuno generava un clima di costante sovraeccitazione musicale, un turbine di suoni, forme e approcci stilistici nei quali ciascuno di noi trovava proprie risonanze: che a loro volta si traducevano in energia creativa e in un irresistibile impulso a fare. Ascoltare era bellissimo, ma suonare – e soprattutto suonare qualcosa che potessimo dir “nostro” – lo era ancor di più.

Nota personale: Fiorenzo mi ha introdotto nell’universo musicale della tradizione colta contemporanea. Mi ha fatto scoprire le sonorità di quel mondo che da allora fanno parte della mia dimensione creativa e improvvisativa: non c’è nota che suoni che non sia impregnata di quel mondo acustico.


Dopo il primo album suo fratello abbandona la band e il quartetto si trasforma in un trio. Fu una scelta solo dettata da differenti obiettivi professionali o ci furono divergenze di tipo stilistico?


Principalmente divergenze di ordine stilistico e musicale e una diversa concezione del suonare. Per noi la ricerca e le sperimentazioni venivano prima di ogni altro aspetto. A noi, pur amandolo, non interessava suonare il jazz o fare i jazzisti.


In trio registrate “Materiale per tre esecutori e nastro magnetico”, radicale capolavoro sperimentale che mescola avanguardia, elettronica, musica concreta e improvvisazione. Qualche critico ci ha intravisto anche una presa di posizione legata ai dettami dell’allora nascente Controcultura. Quali furono le ispirazioni artistiche e politiche dietro la complessità compositiva del vostro secondo album?


(Mia testimonianza, sempre da “Le ricordanze”). Dopo la parentesi dei concerti per la campagna del referendum contro l’abrogazione del divorzio, ci ritrovammo in tre, dopo l’abbandono di Furio che aveva iniziato la sua lunga e proficua carriera di contrabbassista jazz. Quando la Trident, sulla scia del successo delle vendite del nostro primo disco, ci propose di realizzare un secondo LP, ci lanciammo nella nuova avventura. Eravamo decisi a mettere sul fuoco tutto quello che faceva parte del nostro mondo musicale di quel momento assieme alla nostra impossibilità di organizzarlo in modo unitario e coerente, anche se una certa coerenza nel disco “Materiali per tre esecutori e nastro magnetico” c’è ed è l’idea di radicalità e di libertà assolute.

E le libertà ce le siamo prese tutte o quasi: la libertà di cantare un sonetto egiziano di migliaia di anni fa, di “suonare” un gatto, di spaccare bottiglie, di tagliare a pezzettini nastri magnetici, di far girare dischi al rovescio, di usare canzoni registrate da ubriachi, rumore bianco e suono sinusoidale puro, di usare strumenti modificati, testi di Samuel Beckett, suoni di un sintetizzatore costruito in casa. Le circostanze furono a noi favorevoli.

La Trident, che era in difficoltà economiche, ci lasciò nuovamente soli in un’ottima sala di registrazione di Torino, la Format, coadiuvati da un eccellente tecnico di registrazione, Danilo Pennone. In quei giorni potemmo fare tutto quello che ci passava per la mente e il risultato fu ancora una volta del tutto nelle nostre mani. Ricordo benissimo l’espressione di Danilo quando portammo in studio una dozzina di bottiglie vuote e iniziammo a romperle a una a una con un bastone di ferro raccogliendone poi i frammenti per gettarli in un secchio nel quale poi venivano rimescolati a pochi centimetri da uno Steinway gran coda. Danilo ci guardava esterrefatto. Nondimeno conservò un aplomb invidiabile e non disse di no a nessuna delle nostre richieste.

Non so immaginare che effetto possa avere avuto il disco sul nostro produttore discografico. Probabilmente non ebbe nemmeno il tempo di ascoltarlo. Il disco fu distribuito in pochissime copie e oggi costituisce una rarità discografica. È considerato dalla critica un disco coraggioso e difficile, in anticipo sui tempi, tempi che evidentemente non riesce a raggiungere mai dato che il tempo, come si sospetta, non scorre sempre lineare e probabilmente non sempre in avanti… “Materiali per tre esecutori e nastro magnetico” resterà sempre un disco fuori da ogni tempo.


Non può mancare una domanda sulle copertine di questi primi due dischi, tra le più belle di sempre. Che significato hanno gli orologi al posto dei volti umani di “Dedalus” e il cibo parzialmente consumato nei piatti di “Materiale per tre esecutori…”?

“Per il primo disco volevamo una copertina speciale. In quegli anni le copertine dei 33 giri erano diventate lo specchio più vistoso della creatività del tempo, una galleria di immagini, una palestra di idee una più bizzarra dell’altra. E noi volevamo curare in prima persona quell’aspetto. I primi grafici che consultammo furono i ragazzi dello Studio Virus ma le loro proposte non ci convinsero, un incrocio tra lo psichedelico e il flower power. Poi la Trident ci mandò da Caesar Monti a Milano. Come copertina pensavamo a una foto che avevo scattato ad Avignone, un buco in un muro con all’interno un vecchio paio di occhiali, e volevamo proporla a Monti. Durante il viaggio avevo appoggiato la foto e i relativi negativi sul cruscotto della mia Volkwagen. Durante il viaggio qualcuno aprì un finestrino e l’aria risucchiò fuori foto e negativi spargendoli lungo l’autostrada Torino Milano. Li cercammo invano lungo il guardrail, tra la polvere sollevata dai TIR che ci sfioravano. Alla fine la grafica fu interamente decisa da Caesar Monti: un foto montaggio di uomini con orologi al posto delle teste. I claim usati nella campagna promozionale furono: “Uomini soli. Uomini senza tempo”. (da “Le ricordanze”)

La copertina e l’impianto grafico del secondo disco invece furono interamente opera nostra. Io scattai con una Hasselblad 6×6 le quindici fotografie dei piatti pieni di oggetti e rifiuti vari ed Ennio, il fratello di Fiorenzo, ritagliò il cartoncino nero per accogliere le slide. Il nome e il titolo del disco furono scritti sopra le foto dei piatti con i leggendari caratteri adesivi Letraset. I testi furono battuti con una macchina per scrivere Olivetti “Lettera 32” e incollati sul retro di copertina. Doveva essere la bozza per i grafici di Milano, invece il tutto fu stampato così com’era. Per fortuna, penso oggi.

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“Dedalus” – 1973
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“Materiale per tre esecutori e nastro magnetico” – 1974


Su Popsike i primi due dischi dei Dedalus hanno quotazioni che si misurano in centinaia di Euro (il primo addirittura viene venduto a 650 dollari!). Che effetto fa sapere di aver partecipato a un disco di tale valore? Ha ancora delle copie di quegli album?


Ne possiedo solo una copia di ognuno, per un puro caso perché a quei tempi le regalavamo a tutti per farci conoscere. Invece le considerazioni da fare sul valore da collezione degli LP nel corso degli anni sono molte e non è questo il luogo per approfondire la questione. Resta da dire che il valore di un disco o di un’opera qualsiasi è un dato soggetto a variare nel tempo e non coincide con il suo valore assoluto (che è inconoscibile perché non esistono valori assoluti). A volte si rivalutano opere che quando furono realizzate erano considerate mediocri o inaccettabili a causa della mutazione dei giudizi nel corso della storia. Queste mutazioni non sempre sono indici di un effettivo progresso culturale o di un accrescimento di consapevolezza. Io propendo per il caso: sono il caso e la trasformazione del mondo che generano mutazioni. Tutto ciò può essere molto divertente, ma considerarlo in qualche misura gratificante no. Quello che mi gratifica è suonare, perché la musica esiste solo quando la produci.


Sciolti verso la fine degli anni Settanta e riuniti nel 1990, nel nuovo millennio i Dedalus si separano in due tronconi. Fiorenzo Bonansone che forma il Bonansone Dedalus Group e lei che porta avanti il Dedalus Trio, attivo ancora oggi, insieme a Enrico Grosso e al contrabbassista Roberto Bevilacqua. Cosa ci può raccontare di questi due percorsi distinti?


Devo precisare: nel 2013 Dedalus rinasce come trio, i “vecchi” Marco, Fiorenzo ed Enrico. Fino al 2020 noi tre ci siamo ritrovati periodicamente a suonare a casa di Fiorenzo (e qui ci sarebbe da scrivere una storia davvero memorabile di come la musica e la vita privata delle persone siano collegate, ma ne potremo parlare in altra sede, perché ho intenzione di scriverne). Abbiamo registrato in qualità da studio ore e ore di ottima musica, discutendo sempre sul senso di quello che facevamo. Poi nel 2017 è arrivato il quarto elemento: Roberto Bevilacqua, contrabbassista e violista da gamba. Roberto lavora in orchestra come esecutore di musica contemporanea e in un ensemble di musica barocca. Ed è stata la rivoluzione che ha portato alla nascita nel 2020 del Dedalus Trio, senza Bonansone. Mi permetto qui di azzardare una sintesi che forse pecca di un eccesso di semplificazione: Bonanasone non riusciva ad accettare la qualità delle nostre improvvisazioni perché intendeva sempre ricondurre la sua e la nostra musica all’interno di un “progetto compositivo teorico” che fosse al di sopra del fenomeno acustico e che lo contenesse e lo giustificasse in toto. Questo però senza scrivere una nota o comporre alcuna partitura. Quasi una contraddizione logica insuperabile. All’opposto Dedalus Trio prosegue la ricerca di Dedalus “storico” ma la suona davanti a tutti, non la nasconde, non nasconde la ricerca! Con il trio abbiamo deciso di confrontarci con il pubblico, fatto che Bonansone trovava invece inutile o non essenziale.


Tornando alla formazione storica, sappiamo che Furio di Castri è oggi uno dei contrabbassisti di punta del jazz italiano. Lei ed Enrico Grosso siete ancora attualmente attivi nel portare avanti il nome e lo spirito dei Dedalus. Visto che si trovano pochissime notizie, ci racconta qualcosa del presente e del passato recente di Fiorenzo Bonansone?


Qui la invito a contattare direttamente Fiorenzo che dal 2020, dall’arrivo della pandemia, si è chiuso al mondo esterno. Non siamo più riusciti a suonare con lui causa pericolo virus.


Tornando all’attualità, relativamente al Dedalus Trio, quali sono i progetti che ha in cantiere per il futuro? Non mi risulta che con quest’ultima formazione abbiate mai registrato materiale nuovo. Avete in programma delle uscite discografiche?


All’inizio del 2020 stavamo per registrare un CD con Felmay, come Dedalus quartetto con Bevilacqua. Ma Fiorenzo non era soddisfatto delle registrazioni. Quindi non se ne fece nulla. Il trio è pronto a registrare. Abbiamo un progetto sensazionale che mescola Luigi Nono con Marin Marais, Glass con Bach, Primo Levi con l’Africa. Presto il concerto che abbiamo fatto al Torino Jazz Festival andrà su Radio3. Domenica 21 suoneremo in trio all’Imbarchino.


Ringraziamo Marco di Castri per averci dedicato un po’ del suo tempo e per averci fatto riscoprire questa storia che coinvolge da vicino la nostra area geografica. Come avete potuto vedere, molte risposte riprendono passaggi estratti dal libro allegato al cofanetto “Le ricordanze”. La raccolta antologica, edita nel 2017 da AMS Records, contiene quattro CD con l’intera discografia dei Dedalus (ad eccezione di quanto pubblicato dal Bonansone Dedalus), oltre a un buon numero di inediti. Il booklet invece consta di una sessantina di pagine, nelle quali è contenuta una corposa dose di testimonianze, dei musicisti ma anche di chi collaborò, a vario titolo, all’epopea del progetto. Assolutamente da leggere, da avere, per entrare a capofitto in quella dimensione parallela dove si incrociarono i destini di una serie di figure pionieristiche, ancora oggi forse non del tutto comprese e certamente non celebrate quanto meriterebbero.

Una musica fuori dal tempo, quella dei Dedalus. Tutt’altro che facile, spesso autoreferenziale, ma ammaliante, seducente, anche grazie alle vicende atipiche che fin dalle origini ne tracciarono l’evoluzione.

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Marco Ughetto, appassionato di musica e giornalismo, chitarrista e cantautore amatoriale, si laurea in Cinema al DAMS di Torino nel 2014, con una tesi sui rapporti tra cinema e cultura digitale. Nel 2002, insieme ad altri quattro amici, dà il via alla prima versione di Groovin' - il portale della musica nel Pinerolese.

http://groovin.eu

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