LA POZZANGHERA CHE SI CREDEVA IL CIELO – Federico Raviolo

“La pozzanghera che si credeva il cielo” è il titolo del nuovo lavoro di Federico Raviolo. Smessi temporaneamente i panni di front-man dei Mechinato, Federico si è dedicato compiutamente all’attività che predilige: la poesia. Ma, i suoi versi, non si è limitato a scriverli. Li ha recitati, registrati e raccolti in un album come fosse un disco di canzoni. Un bell’esempio di spoken word, genere dalle radici antichissime, che in epoca recente ha acquisito nuova vitalità grazie anche alle tipicità degli strumenti di diffusione digitale come le piattaforme di streaming.

Con un misto di ambientazioni da podcast letterario e di richiami fascinosi ai radio romanzi d’antan, Raviolo legge i suoi scritti come un Jack Folla bargiolino. I suoi componimenti oscillano tra futurismo “marinettiano” e linguaggio postmoderno, travalicando il concetto di poesia in senso stretto. Le sue sono fotografie verbali che immortalano i più rappresentativi scenari della contemporaneità. Supermercati, bar, luoghi di lavoro, intimità domestiche, periferie e scorci industriali, sono le ambientazioni attraverso cui racconta con disincantata lucidità le schizofrenie e le ossessioni del nostro tempo. Ribalta, attraverso la descrizione del caos, la concezione tradizionale dell’esistenza, evitando i punti di vista più trascendenti. Focalizza il suo sguardo su oggetti e su situazioni comuni ed estrae molecole di spiritualità dai contesti quotidiani, anche quelli più personali e triviali.

Così la deiezione diventa il gesto in cui le biografie dei singoli trovano senso e profondità (“Intimità e bellezza”). E il disordine delle suppellettili inanimate di “Nelle case le cose”, nella loro immutabilità immota, sembrano rimarcare senza possibilità di discussione la nostra caducità terrena. Il tono dolce-amaro della voce di Raviolo ci immerge in un mondo di disillusioni, che in fondo sono un po’ quelle di tutti noi. La capacità di esporre riflessioni complesse, talvolta anche drammatiche, con il tipico sarcasmo di chi se ne è fatta una ragione, è il suo marchio di fabbrica. Il codice in cui convivono linguaggio alto e terminologia colloquiale è lo strumento di contatto tra l’acqua stagnante della pozzanghera e l’infinito dell’universo. Come a dire che è nel putridume fangoso delle esistenze mortali che si riflettono i barlumi del divino. O che, per lo meno, questa sia l’illusione che ci tiene in vita.

Nei versi di Raviolo c’è una formidabile abilità di sorprendere. Il continuo mutamento di registro calamita e avvinghia tra le sue spire, immergendoci in un metaverso nello stesso tempo sconosciuto e familiare. Le parole giocano a spiazzarci, a fornirci continue quanto inattese variazioni di atmosfera. Le riflessioni “blues” sono perennemente scardinate da un velo di arrendevole ironia. Come accade tra i commoventi ricordi del padre nel trittico che chiude l’album. L’improvviso insulto dialettale, ad esempio, quel “piciu!” di “La notte prima” che l’autore rivolge a se stesso, strappa una sonora risata proprio mentre gli occhi sono ancora lucidi per le parole che precedono, in un turbine emotivo estremamente coinvolgente.

La pozzanghera che si credeva il cielo” è un lavoro carico di fascino notturno e crepuscolare. La sua seduzione ha sicuramente a che fare con il connubio tra musica e poesia. Due anime che non si confondono mai, come avviene al contario nell’ambito della canzone. Esse mantengono la loro indipendenza, con la prima che serve soprattutto a indirizzare il mood della seconda. Il connubio non è ovviamente una novità. Lo si può tranquillamente inserire nel filone che affonda le radici, ad esempio, nel lavoro dei Massimo Volume, band nella cui discografia il cantato e le linee melodiche lasciavano il posto alla declamazione recitata di testi densi di lirismo e visionarietà. Ma qualche riferimento lo si può incontrare anche in alcuni recenti sottogeneri del rap che, svincolati dalle ossessioni ritmiche e dalla rima ad ogni costo, hanno abbracciato modalità di esternazione più viscerali ed emotive. E perché non vederci anche la sperimentazione dei Public Service Broadcasting, che sul parlato radiofonico hanno costruito tutto il loro repertorio? 

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“La pozzanghera che si credeva il cielo”

Questi esempi possono essere considerati come possibili ispirazioni, ma sono naturalmente molto lontani dal reading di Raviolo. Le sue specificità lo rendono, infatti, un genere smaccatamente letterario e teatrale. Le musiche di Gabriele Scarpelli – autore anche delle parole di “Venti freddissimi” – hanno un ruolo certamente non marginale, ma nell’equilibrio complessivo rimangono sempre sullo sfondo. In primo piano si stagliano i monologhi dell’autore che rimarcano una sbalorditiva attitudine attoriale. Le sue intense performance, nell’estemporaneità dell’improvvisazione, amplificano il pathos della recitazione, smarcandole dalle declamazioni pedestri e didascaliche di molti omologhi e fugano i possibili dubbi rispetto a questo metodo di divulgazione letteraria.

La “pozzanghera”, dunque, si costituisce stilisticamente come lirico anello di congiunzione tra i radiodrammi del passato e i moderni audiolibri, nella versione sonora di un avvincente recital teatrale. Se però rimangono incertezze sull’effettivo senso dello sradicamento della poesia dall’ambiente naturale della carta stampata, chiudiamo con una riflessione.

In un’epoca in cui si legge sempre meno – almeno questo dicono le statistiche e molti luoghi comuni a cui riteniamo di attenerci; in tempi di oralità di ritorno – e questo ce lo dice Ong nella sua intera bibliografia – con l’udito che sta soppiantando la vista come senso principale di percezione della realtà e riportando la comunicazione a un’era pre-chirografica; ecco, in una situazione così definita, ci piace pensare che diffondere poesia attraverso canali prettamente uditivi possa implicare almeno due importanti benefici. Da una parte si apre un varco più agevole, ampio e affine alle abitudini moderne, verso le forme più elevate del pensiero creativo. Dall’altro, le parole si affrancano dalle distrazioni illusorie dell’immagine e, grazie anche alla funzione metalinguistica del parlato, arrivano all’interiorità senza la mediazione ingannevole della ragione.

Immergetevi a fondo, ne varrà la pena!

Ones

ones

Marco Ughetto, appassionato di musica e giornalismo, chitarrista e cantautore amatoriale, si laurea in Cinema al DAMS di Torino nel 2014, con una tesi sui rapporti tra cinema e cultura digitale. Nel 2002, insieme ad altri quattro amici, dà il via alla prima versione di Groovin' - il portale della musica nel Pinerolese.

http://groovin.eu

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