LA MORA

Immagine di copertina tratta dal sito latuadietapersonalizzata.it

Sale lungo i muri di pietra a secco con arbusti sottili, simili a dita magrissime. Tappezza il suolo dei boschi cedui, là dove nel profondo della terra scorrono vene d’acqua. Contorna la base delle querce e dei castagni, ne diventa vestito come a volerli fare più belli… e a volte il vestito si fa così opulento da soffocare l’ospite e togliergli respiro, linfa e vita.

Infestante. Da sempre i nostri vecchi lo chiamano infestante questo cespuglio. Il rovo maledetto, che ricopre i campi di foraggio, che sale dalle sponde dei canali irrigui e tenta di invadere con i suoi tentacoli le colture quelle buone, quelle che danno sostentamento e frutto. Infestante. Nel senso che dilaga, copre, ammanta, toglie spazio e e terra buona. Eppure il rovo, se lo guardi con altri occhi, scevri dalla natura contadina che ci portiamo insita dentro dal neolitico, si può anche dire una creatura straordinaria… Nasce come gemma, minuscola, quasi impercettibile. Lo calpesti e non te ne accorgi, perchè nascosto tra le foglie cadute dei grandi castagni. O perché nell’ombra delle pieghe del terreno di una ripa scoscesa… o ancora non lo vedi perché germoglia tra i sassi di un vecchio rudere o tra gli aghi di pini secolari.

Resta e cresce. Sembra non chiedere nulla a nessuno talmente è insignificante. Ma nasconde in sé una potenza che ha rari emuli in natura. È un vegetale e per antonomasia è privo del movimento. Falso. Il rovo è un Camminante. Il rovo se ne va a piedi scalzi senza fare rumore, senza accendere motori, senza nemmeno chiedere la luce del sole che tutti i suoi giganteschi fratelli di specie e genere cercano con cupidigia. Cammina. Allunga il suo esile corpo strisciando leggero. Poggia piedi fatti di baccelli che si aggrappano con forza ad ogni superficie. E più cammina più si espande in dieci, cento braccia nuove che a loro volta camminano e fan germogliare altre braccia in un tripudio di concepimenti.

Il rovo è un miracolo di Natura. Viaggia senza bagagli e colonizza i boschi e le pianure come un’invasione biblica, sovvertendo equilibri millenari. Arriva, si insedia e le creature stanziali si adeguano al colonizzatore, che si appropria del territorio senza strepito, senza legioni, senza bombardare. Punge il rovo. Perché ha spine acuminate… ma è combattuto da tutti, uomini e piante: voi non avreste imparato a camminare con una spada al fianco se tutti quelli che incontrate vi muovessero battaglia? E allora punge, perché almeno estirparlo faccia sanguinare le dita di chi impunemente lo considera un essere inferiore ed inutile. Punge perché è brutto, non ha un bel tronco cui gli innamorati si appoggiano per baciarsi e non ha foglie dalla forma artistica che ispirino pittori o cantastorie. E allora punge. Ma punge anche la terra o la pietra, perchè ogni spina è un artiglio forte con cui aggrapparsi, con cui fare forza per spingersi avanti un altro po’ nella sua estenuante infinita ricerca di nuove terre da avere, da coprire, da conquistare.

Punge il rovo ma non è tutto veleno, non è tutto erba grama e maligna. Perché ad un certo punto, quando è tarda primavera, dall’intrico delle sue innumerevoli braccia deformi spunta una tavola di colore inaspettato, ed il cespuglio cattivo si veste da sposa, si tinge di bianco in centinaia di fiori dai petali esili aperti come raggi di altrettanti piccoli soli. Bianche gocce di luce su un tappeto verde scuro che ricorda i muschi maleodoranti delle marcite. E l’infestante diventa per qualche tempo una fanciulla leziosa, maliziosa se vogliamo, quando il vento agita i suoi fiori e il dorso opaco delle sue foglie fa contrasto con la parte liscia e scura che normalmente offre agli occhi di chi incontra nel suo cammino. Gialli pistilli colmi di nettare denso, quasi una melassa che rende le dita appiccicose… la sua resina, i suoi semi, il suo contributo alla Natura nel dare cibo prezioso alle api che ne faranno buon miele dal sapore aspro e dolce insieme.

Ed il groviglio diventa coperta distesa, lembo di tessuto a pois candidi. Frutti verdi, acerbi, minuscoli, prendono vita dai fiori gentili. Ricordano l’asprezza del cespuglio, sembrano capocchie di spillo, frammenti di smeraldi nascosti in un mare altrettanto verdeggiante. Il sole li scalda, racconta loro storie di vita, li fa arrossire di passione. Imbellettati di un bel rosso vermiglio traggono in inganno i frutti del rovo: sembrano maturi, sembrano lamponi. Ma è una menzogna, se li cogli sono duri come legno e sulla lingua lasciano un sapore acre, una sensazione di torpore del gusto, nessun dono al senso dell’olfatto perchè sono privi di qualsiasi odore. È il nero il colore della loro maturazione piena. Nero: l’opposto del bianco per antonomasia. Frutti neri. È strano come il rosso attiri l’attenzione e stimoli il desiderio di cogliere un frutto. E come il nero invece lasci interdetti, titubanti. Bacche nere. Saranno buone? Saranno velenose? E sprofondate in quell’intrico di braccia spinose, come si possono cogliere? Ma poi ci si sofferma sulla forma, sulla perfezione della loro complessa architettura… non sono semplicemente bacche, no. Sono, ogni singolo frutto, un complesso di decine e decine di minuscoli acini sferici, che vanno a costituire nell’insieme una forma dolce, un po’ a piramide rovesciata… una scultura di forme tondeggianti, di curve tutte perfette e tutte uguali. Allora lo cogli, e lo cogli pagando l’obolo della tua curiosità lasciando sulla pelle nuda delle gambe e delle mani i segni rossi del morso delle spine del rovo… ma lo cogli. E quando finalmente scende rotolando sulla lingua è una sensazione meravigliosa, come gustare non uno ma cento frutti, che ogni singolo minuscolo acinino lascia sulle tue papille il suo contributo di miele e zucchero, la sua parte di emozione e stupore. Mille sfere di piacere ti scivolano sul palato, come una donna bellissima, resa bella dai suoi mille volti che concorrono a formare la sua unicità.

Non è per tutti la mora. La mora è per chi va fuori dalle strade battute e si inoltra nel folto. La mora è per chi è disposto a segnare la pelle tra le spine. La mora è per chi ha il coraggio che richiede la non consuetudine. La mora è per chi sa contenere la golosità, perchè troppe more tramutano il miele in piombo velenoso che intrappola lo stomaco per giorni. La mora è per chi ascolta il suono di un bosco. La mora è per chi sa camminare con i tacchi su un selciato ma anche scalzo sull’erba bagnata. La mora è per chi sa vedere la meraviglia nel piccolo, per chi sa coglierne la perfezione e l’antitesi che è intrinseca nel suo stesso esistere, nel suo stesso nascere da un cespuglio spinoso ed evitato, lasciato a margine. Il rovo è un “ultimo”, un reietto dei vegetali. Sradicato, tagliato, estirpato, combattuto, bruciato. Al rovo si lascia il peggio della terra, gli si lascia l’inutile, ciò che agli altri non serve. Dai campi si estirpa senza pietà. E gli si lasciano le rive dei canali, le sponde scoscese dei boschi dove non si può coltivare la castagna. Gli si lasciano i terreni abbandonati, le discariche, gli immondezzai, i boschi lasciati rinselvatichire senza cura. Al rovo non si da concime, non si dona acqua nella calura estiva. Al rovo non si lascia niente e non si da niente.

Eppure a primavera si veste di bianco, come una sposa. Come una sposa colora di allegro i luoghi più nascosti. Come una sposa tramuta il suo bianco nel rosso della passione. E come una sposa lascia, a chi la sa cogliere, il sapore del miele sulle labbra.

Roby Salvai

Pinerolese. Musicista da 50 anni. Guida professionista in Africa per quasi due decenni. Scrittore per Effatà Torino, Polaris Firenze, Mucchi Modena, Prospettiva Editrice Roma. Ha collaborato con Edt Lonely Planet.

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