FIRE – Fire feat. Adrian Sherwood

Parlare dei Fire è un’avventura insieme complessa e affascinante. Complessa perché si tratta di un collettivo multiforme ed estremamente variegato, nel quale confluiscono esperienze molto diverse tra loro, al punto tale che risulta piuttosto difficile inquadrarne l’ambito elettivo in modo univoco e categorico. Affascinante perché la mole di suggestioni che scaturiscono quando ci si avvicina alla loro musica è invece ampia e articolata. Non solo per l’attitudine compositiva ed esecutiva dei suoi componenti, sulla quale non si discute, ma soprattutto per le atmosfere avvolgenti e pienamente immersive offerte all’ascolto.

I Fire nascono a Torino dal genio visionario del trombettista Ivan Bert, su commissione del Torino Jazz Festival. Proprio in occasione dell’edizione 2020 della kermesse, infatti, Bert riunisce attorno a sé un gruppo di artisti poliedrici di diversa estrazione e provenienza geografica, per dare vita a un progetto multidisciplinare dai tratti completamente anticonvenzionali. Le individualità riunitesi sotto la Mole sono tra le più interessanti tra quelle che oggi può offrire la musica italiana. Percorsi talvolta anche molto distanti stilisticamente tra loro, ma accomunati da una spiccata sensibilità artistica in grado di creare un coinvolgente universo sensoriale che seduce e trasporta lontano. Sei diverse visioni della creatività, connesse da una forte passione per la sperimentazione, che si traduce in un’evidente vocazione al trattamento elettronico della musica, vero e proprio catalizzatore dell’ensemble.

I Fire, oltre a Ivan Bert, sono composti dal sassofonista Gianni Denitto, anima dei Torino Unlimited Noise, altra formazione del capoluogo sabaudo, che ha fatto del jazz contaminato con l’elettronica estrema il proprio presupposto esistenziale; l’eclettico polistrumentista Marco Gentile (Africa Unite), a suo agio in egual misura con musica classica, reggae, pop e rock, oggi anche ricercato produttore e arrangiatore; il marimbista Pasquale Mirra, già conosciuto per essere parte dei C’mon Tigre, tra le band italiane più originali degli ultimi anni. Completano poi la line-up il producer FiloQ (Filippo Quaglia) e l’artista visivo genovese Akasha (Riccardo Franco-Loiri), specializzato nella pratica del video mapping, il cui apporto traghetta la fruizione da una semplice esperienza d’ascolto a un coinvolgente viaggio multimediale. 

“Fire” è stato registrato completamente dal vivo, avvalendosi della presenza tra i crediti di un vero mostro sacro della musica elettronica mondiale. Adrian Sherwood non è solo un celebre produttore e fondatore di alcune importanti etichette discografiche (Pressure e On-U Sound, su tutte). L’artista britannico è conosciuto soprattutto per le sue innumerevoli collaborazioni con nomi altisonanti dello showbiz musicale. Ha remixato, tra gli altri, Depeche Mode, Nine Inch Nails, Sinead O’ Connor e Primal Scream. Il suo ambito elettivo è indubbiamente il dub e, più in generale, tutte le declinazioni elettroniche del reggae e delle musica in levare. Ed è proprio in questo contesto che la sua presenza assume i contorni di una firma fortemente caratterizzante oltre che prestigiosa.

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“Fire” è un concept sul fuoco, scoperta fondamentale quanto controversa nella storia dell’uomo, che qui diventa pretesto per una riflessione più ampia sull’evoluzione della nostra specie, dalla prima scintilla alla bomba atomica. La potenza incontrollata delle fiamme è al centro dell’intero sviluppo tematico, raccontato attraverso un tessuto sonoro nel quale l’improvvisazione gioca un ruolo fondamentale. Anche e soprattutto nello scambio creativo tra la band e Sherwood, il cui intervento manipolatorio avviene in contemporanea all’esecuzione degli strumentisti. Si assiste qui a un’inversione del tradizionale iter compositivo e produttivo, che normalmente prevede il medesimo lavoro nella fase di post-produzione. È l’apoteosi dell’intesa creativa estemporanea, in cui i musicisti, quasi guidati dalle evoluzioni ritmiche di Sherwood, abbandonano velleità solistiche e inutili protagonismi, per mettersi al completo servizio delle atmosfere.

Il risultato finale è inconsueto quanto ammaliante. L’anima jazz, attorno cui ruota in modo preponderante la linea stilistica dell’album, si mescola alle esperienze dei singoli, le cui storie passano attraverso molteplici ambiti espressivi, dal djing all’indie rock, passando per il reggae, fino appunto alla forte componente elettronica che ne costituisce il filo conduttore. Le atmosfere rarefatte delle armonie di stampo jazzistico, modellate dall’approccio timbrico elettronico verso atmosfere drum ‘n’ bass e fortemente caratterizzate dai ritmi in levare del dub, come esito forse inatteso si colorano di suggestioni etniche e globalizzanti che ci riportano alle origini del nostro più profondo inconscio atavico.

Un lavoro di grande fascino, che dal vivo ottiene il massimo dell’effetto, ma che non sembra indebolirsi nell’ascolto “in differita”. Al limite, ridurre l’esperienza di “Fire” alla sua dimensione acustica comporta la perdita dell’imprescindibile componente visiva, che è parte integrante di tutto lo spettacolo. Per fortuna, però, in rete si trovano alcuni video della performance che, seppur in modo delegante e mediato, consentono una comprensione più completa del progetto.

L’intero album è ascoltabile sulle principali piattaforme di streaming, ma a gennaio è uscito anche in una bella edizione in vinile. L’elettronica e il jazz sono due generi che tra i solchi analogici dei padelloni in PVC da sempre ottengono una compiuta valorizzazione. Quindi perché non partire da qui?

Ones

Le tracce

Vista la complessità delle riflessioni che stanno dietro il lavoro concettuale di “Fire”, vi riproponiamo la presentazione delle otto tracce pubblicata dalla band sulla sua pagina Facebook.

1. A queda do céu

Ispirato dalle parole dello sciamano Yanomami brasiliano Davi Kopenawa e dal suo libro scritto con l’antropologo Bruce Albert, il primo brano del disco live è un inno corale avvolto dai suoni del popolo Yanomami nella loro foresta. Dedicato alla cosmogonia nativa americana dell’Amazzonia brasiliana e alla “caduta del cielo” riflette su come la nostra incursione predatrice ed estrattiva stia disintegrando irreversibilmente non solo le comunità dei popoli nativi ma anche le fondamenta del loro atavico rapporto con l’ambiente forse più importante del Mondo.

2. Skankification

Una provocazione, un cortocircuito tra la solennità e la paranoia dei riti religiosi basati sul fuoco. Un rave a cavallo tra le spirali danzanti attorno alla Kaaba della Mecca e le allucinazioni New Age.

3. Sinnervisions

È il canto delle sirene che le città di tutto il mondo emanano come una promessa che non manterranno mai. L’estetica della città sfavillante illuminata 24/24 da milioni di pixel led è la facciata di una trappola bulimica che attira tutti a sé come le falene sui fari di un’auto elettrica in corsa senza una meta. I palazzi di vetro e metallo nascondono tutto il resto, invisibile e indicibile, nessuno escluso, tutti esclusi. Le città immaginate suonano tutte uguali, ti vendono un po’ la NY di Miles Davis, un po’ la Tokyo di Ryūichi Sakamoto, un po’ la Beijing di oggi, ma appena dietro le colonne del centro c’è una distesa di periferie, una distesa di vite incastrate nell’urbanistica senza visione.

4. Janjaweed Comes At Sunset

Ci appare romantica e poetica la silhouette di un miliziano a cavallo nella luce rossa del tramonto africano. Ma la parola Janjaweed arriva da un viaggio del 2003 in Chad al confine con il Darfour, quando i “demoni a cavallo” spingevano milioni di sfollati oltre il confine sudanese, nelle aride terre del Sahel. Quello non ci sembrava ancora l’inizio della “guerra per la terra e per le risorse” che oggi spinge le grandi migrazioni interne al continente africano e, parafrasando L. C. Sforza, verso un nuovo “out of Africa”.

5. Strategy Of Tension

È il frame di una transizione perpetua. Nel disco è stato inserito l’estratto di un momento live di noise, postrock, dub, free jazz, mescolato alle registrazioni audio dei telegiornali americani nei giorni delle proteste per l’uccisione di G. Floyd e della violenta repressione dei militari e della polizia. Suoni e immagini di uno “sport nazionale” che noi italiani non abbiamo mai smesso di praticare e di subire. Una strategia alla quale si finisce per abituarsi e alla quale noi italiani a partire dagli Anni di Piombo abbiamo dato il nostro celebre brand.

6. Proton Swap

Un titolo ambiguo e duplice che allude agli scambi dei trader di criptovalute e alle reazioni termonucleari. Cassa dritta in 4/4, un lungo assolo di chitarra skank, la voce narrante di un fisico tedesco che nel secondo dopoguerra ha riflettuto in modo molto profondo e critico sulle conseguenza dell’aver trasformato l’uomo in un semidio appeso tra la paura e l’hybris. Come disse J.R. Oppenheimer dopo aver visto l’esplosione atomica nel Trinity Test citando le parole di Bhagavagītā induista “Sono diventato Morte, il distruttore di Mondi”

7. Masaai Smiles

Mandrie sterminate e stormi coloratissimi ricolonizzano gli spazi rubati dopo che la furia dell’Energia Nucleare ha appena “cauterizzato” il mondo. La settima traccia del live è il punto nel quale la vita riparte come un’esplosione di corpi. Riparte immediatamente e più rigogliosa di prima, come abbiamo potuto vedere quando ci siamo fermati per qualche mese. È un party liberatorio nel quale il sound dei fiati e della marimba si fanno fanfara e balafon in una parata afrosincretica.

8. Newt Come From Waves

Tutto viene dal Mare e tutto tornerà al Mare. L’ultimo pezzo del disco-live è costruito sul suono della risacca, una sorta di esorcismo ansiolitico, perché comunque vada la vita ripartirà dal Mare e dalle sue profondità che custodiscono il DNA per la prossima Era. Un brusco freno a mano che accompagna la fine del live e riunisce le speranze collettive, le paure dell’ignoto, i desideri di salvezza che da sempre viaggiano e si infrangono tra le onde. Un “lamento” intimo collettivo con gli occhi fissi a cercare chi arriva cavalcando la “prossima onda”. Una Sea Shanty dei marinai inglesi iper rallentata e trasfigurata. Come in tutto il live il “destino”degli esseri umani è raccontato tramite metafore zoologiche, ecologiche e migratorie.

ones

Marco Ughetto, appassionato di musica e giornalismo, chitarrista e cantautore amatoriale, si laurea in Cinema al DAMS di Torino nel 2014, con una tesi sui rapporti tra cinema e cultura digitale. Nel 2002, insieme ad altri quattro amici, dà il via alla prima versione di Groovin' - il portale della musica nel Pinerolese.

http://groovin.eu

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