HERETIC MONK – Barber Mouse

Il primo disco dei Barber Mouse risale al 2011. Il trio torinese, coordinato dal contrabbassista Stefano Risso e completato dal pianista Fabrizio Rat e dal batterista Mattia Barbieri, esordiva più di un decennio fa con “Plays Subsonica”, un album nel quale venivano reinterpretati in chiave jazz alcuni classici della rock band di Boosta e Samuel. L’elemento stilistico principale di quell’episodio discografico era costituito dalla “preparazione” degli strumenti, opportunamente modificati con l’applicazione diretta di elementi extra-musicali, che avevano l’obiettivo di esplorarne le potenzialità timbriche. Una scelta sicuramente originale e coraggiosa. Soprattutto per l’accostamento tra la musica di una band che ha fatto dell’elettronica il proprio marchio di fabbrica e una sperimentazione di manipolazione sonora totalmente acustica. Il risultato finale fu molto interessante e apprezzato, anche per la partecipazione diretta al disco dello stesso Samuel.

Nel 2022, i Barber Mouse sono tornati. Questa volta, però, affrontano un percorso completamente diverso, almeno in apparenza. Non più le atmosfere pop di una band contemporanea, ma l’opera di un jazzista classico come Thelonious Monk, autore controverso ma estremamente innovativo, fonte di ispirazione per intere generazioni di musicisti, tra gli artisti più influenti del Novecento. Ma il Monk rivisitato dai Barber Mouse possiede qualcosa di “eretico”. Ce lo dice anche il titolo del disco, nel quale emerge la scelta consapevole di non volersi affidare a una pura riproposizione filologica. Le scelte stilistiche adottate, infatti, danno conto dell’intenzione di scardinarne il linguaggio, di innovarlo, per affermare, pur nel rispetto di un mostro sacro come il pianista americano, una propria specifica personalità.

Gli strumenti preparati sono nuovamente al centro del progetto, anche se la ricerca timbrica diventa caratterizzante solo in alcuni episodi, come nell’ossessività percussiva e metallica del pianoforte di “Carolina Moon”, “This Is My Story” e “Friday the 13th”. Per il resto, si tratta di una presenza quasi subliminale, che contribuisce appena a definire un’atmosfera, senza ergersi mai a protagonista, come un filtro che agisce in modo silenzioso e che mantiene costante l’impressione di naturalezza. L’eresia diventa invece più tangibile e radicale nell’intervento sull’intelaiatura armonica e melodica. Le rigide regole adottate per l’arrangiamento e la reinterpretazione dei nove brani di “Heretic Monk“, infatti, provano a ridefinire i codici espressivi tradizionali. In questo modo, l’emancipazione dalle convenzioni concettuali di scale e accordi, trasporta l’ascolto in un viaggio dagli esiti assolutamente imprevedibili e stranianti.

L’album è stato rilasciato nel corso del 2022, attraverso la pubblicazione periodica delle tracce singole, assumendo poi la forma di un lavoro compiuto e coerente solamente a inizio 2023. Per raccontare più approfonditamente “Heretic Monk”, anche nei suoi dettagli più tecnici, abbiamo rivolto qualche domanda a Stefano Risso.


heretic monk barber mouse copertina cover

Grazie Stefano per accettato il nostro invito. Partiamo dai contenuti. Nel vostro nuovo lavoro rileggete l’opera di un autore classico come Thelonious Monk. Quali sono gli elementi della sua musica che vi hanno spinti a dedicargli un intero disco?

Le composizioni di Monk sono estremamente contemporanee, trasversali da un punto di vista cronologico e sganciate dai cliché stilistici della sua epoca. La sua è una musica che non invecchia. Inoltre, è un esempio di perfezione compositiva. Insegno composizione jazz al Conservatorio di Potenza e, per qualsiasi mia necessità descrittiva, utilizzo spesso la musica di Monk come parametro di riferimento, perché analizzare i suoi brani permette di spiegare i criteri compositivi generali e le tecniche di scrittura in modo molto approfondito. Per qualsiasi argomento io debba spiegare, in lui trovo sempre un esempio assolutamente esaustivo.

Colpisce lo scarto stilistico che passa tra il vostro esordio discografico, dove affrontavate il repertorio pop dei Subsonica, e questo ritorno molto più classico. Qual è il motivo di un cambio così drastico di direzione musicale? Cosa accomuna i due mondi apparentemente così distanti?

Da sempre, ho la convinzione che l’essenza della musica sia una sola, che si tratti di Mozart, Beethoven, di Monk o dei Subsonica. Più scrivo, o più approfondisco lo studio della musica, dell’armonia e della composizione, più mi rendo conto che l’approccio non cambia al cambiare delle situazioni. Per me non c’è differenza tra quando, ad esempio, scrivo canzoni per il progetto in duo che porto avanti con la cantautrice torinese Lalli, rispetto a quando lavoro sul repertorio di un gruppo jazz. Due anni fa ho realizzato un arrangiamento molto complesso, sul brano “Keep Your Ass Naked” degli Auanders, formazione dall’organico piuttosto articolato. Il brano, molto ricco, mi ha richiesto almeno un mese di scrittura. Ma, che io mi metta al pianoforte per scrivere una canzone, o che lo faccia per realizzare un arrangiamento complesso come quello citato, l’approccio è fondamentalmente il medesimo.

Lo racconto sempre ai ragazzi a cui insegno composizione. Alle volte rischia di essere più difficile spiegare una modulazione di un pezzo di Kurt Cobain dei Nirvana, piuttosto che una modulazione di un pezzo di Mozart, che conosceva sicuramente di più la musica rispetto a Cobain, il quale però possedeva una grandissima musicalità. Aveva una notevole capacità di connessione dei materiali musicali a sua disposizione e di sviluppo melodico dei brani, anche se forse non lo faceva secondo le leggi canoniche dell’armonica classica. Continuo quindi a non vedere così tanta distanza tra musiche diverse, generi diversi, che stanno in mondi diversi. Allo stesso modo, non la vedo tra Monk e i Subsonica.

Quali criteri avete utilizzato per scegliere le composizioni di Monk da reinterpretare per l’album?

Se, nel caso dei Subsonica, avevamo operato una selezione molto più severa, perché avevamo bisogno di materiale che potesse essere più adatto a un certo di tipo di rielaborazione e che fosse più pertinente alla nostra linea stilistica, per “Heretic Monk” il criterio è stato di tipo esclusivamente passionale. All’interno della discografia di Monk, tra composizioni sue e standard di altri autori, entrati stabilmente nel suo repertorio, abbiamo scelto melodie e composizioni che ci affascinavano. La scelta è stata molto libera, senza particolari logiche, per puro amore verso le sue peculiarità compositive e interpretative.

Sono passati circa dieci anni tra la registrazione del disco e la sua pubblicazione. Quali difficoltà avete incontrato nella realizzazione di questo lavoro?

Registrammo “Heretic Monk” subito dopo l’uscita di “Play Subsonica”. Gli editori, in genere, non amano troppo pubblicare musica già edita e, sebbene Marco Valente e la Auand Records si fossero detti interessati al nuovo disco, noi arrivavamo da un album con le stesse caratteristiche. Così ci bloccammo per un po’. Nel frattempo, siccome siamo tutti e tre musicisti molto prolifici che non si fermano mai, ci buttammo su altri progetti. Io, ad esempio, proprio in quel periodo stavo facendo uscire il mio solo. Così finì tutto un po’ nel dimenticatoio.

Almeno fino a un paio d’anni fa, quando Marco di Auand ritrovò quelle registrazioni su un hard disk. Le riascoltammo assieme e ne rimanemmo entrambi positivamente sorpresi. Come Barber Mouse eravamo fermi da tempo, anche perché Fabrizio Rat abita a Parigi ed è sempre complicato dare continuità a un gruppo quando i musicisti vivono così distanti tra loro. Ma quando feci riascoltare le registrazioni a Fabrizio e Mattia, entrambi concordarono sul valore del loro contenuto e sulla necessità di portare a termine il lavoro, al quale mancava soltanto la fase di masterizzazione per poter essere pubblicato.

Il rilascio di “Heretic Monk” è avvenuto attraverso la pubblicazione periodica delle singole tracce. Questo vi ha permesso, tra l’altro, di aggiungere al lavoro un’ulteriore dimensione artistica, grazie alle splendide copertine abbinate ai vari brani.

Sì, il disco l’abbiamo pubblicato per singoli, in questa maniera un po’ assurda che va di moda oggi su Spotify! Dopo aver fatto uscire le varie tracce con cadenza più o meno mensile lungo tutto il 2022, lo scorso febbraio, in concomitanza con la nostra reunion al concerto di Brescia, è uscito l’album completo. Nel frattempo, avevo fatto un viaggio a New York, dove avevo scattato delle fotografie che ho deciso di utilizzare per le copertine. Sono immagini caratterizzate da riflessi che offrono scorci inusuali sulla città, di cui sono molto fiero e che mi pare rispecchino completamente l’estetica e il concetto dell’intero progetto eretico che, a mio parere, dona alla musica diversi livelli di profondità e di lettura.

Sono due le particolarità stilistiche di “Heretic Monk”. La prima lo accomuna al vostro primo disco ed è l’utilizzo di strumenti “preparati”, che permettono alla strumentazione acustica di imitare manipolazioni elettroniche e di infondere atmosfere industriali. Possiamo approfondire che tipo di “preparazione” avete operato sui vostri strumenti e da cosa nasce questo tipo di idea estetica?

L’idea originaria di Barber Mouse è quella di suonare totalmente in acustico, come un trio jazz tradizionale, ottenendo effetti timbrici particolari senza l’utilizzo di effettistica, ma soltanto attraverso la preparazione dei nostri strumenti. È il perno centrale della nostra musica. Si tratta di una tecnica molto applicata nella musica contemporanea, ma spesso è utilizzata da musicisti nell’ambito dell’avanguardia, che tendono a fare musica astratta. La nostra idea era, invece, quella di utilizzare gli strumenti preparati per fare della musica che avesse melodie e armonie più convenzionali.

Le preparazioni sono cambiate molto nel corso degli anni. E dipendono molto anche dagli strumenti, ognuno dei quali offre possibilità diverse. Fabrizio, in merito, è un vero visionario sperimentatore. Nel mio caso utilizzo molto oggetti da ferramenta: scotch, carta stagnola, pinze e morsetti, mezzi che mi permettono di sperimentare e di sviluppare al massimo le potenzialità del mio strumento. Quando presentammo “Play Subsonica”, Max Casacci mi confidò di essersi chiesto con quale pedalino ottenessi il suono del mio contrabbasso, ma quel particolare timbro era dato semplicemente da anelli di carta stagnola avvolti attorno alle singole corde. Ne usciva un effetto fuzz molto delicato, ma molto presente.

La seconda particolarità riguarda invece un lavoro essenzialmente armonico, una ricostruzione delle melodie originali attraverso l’uso di specifici tetracordi, utilizzati poi anche come riferimento per le improvvisazioni. Qual è l’obiettivo di una decostruzione di questo tipo? Perché auto-imporsi una tale rigidità compositiva ed esecutiva, a maggior ragione quando applicata a un universo come il jazz da sempre basato su una certa libertà di improvvisazione?

L’idea è stata fin dall’inizio quella di riarmonizzare completamente i brani di Monk. Così, siamo partiti scegliendo otto gruppi di quattro note, separate tra loro non da tradizionali intervalli di terza o quarta, ma da intervalli misti. Come vincolo più radicale, però, abbiamo deciso di essere rigorosi anche all’interno dei soli, per i quali abbiamo usato solamente le note del tetracordo. Questo ha comportato la necessità di un lungo periodo di studio. Per molti mesi ho dovuto reinventare la mia tecnica strumentale. Un po’ per abbandonare certi automatismi legati all’armonia tradizionale, un po’ perché potendo usare solo quattro note all’interno dell’ottava, diventava necessario spostarsi molto di più sulla tastiera, con posizioni meno agevoli.

Questa scelta nasce da quella che è la mia idea centrale di musica, in cui i vincoli hanno un’importanza fondamentale. Più mi impongo delle limitazioni, più la musica che scrivo e che suono sarà originale. Ti faccio un esempio. Nel mio primo disco solista (“Tentacoli”) c’è una sezione – sei brani – che si chiama “Musica residua”, dove ho raccolto alcune mie composizioni realizzate con gli scarti dell’editing. Mi riferisco a tutte quelle parti che, in fase di post-produzione, vengono scartate e non utilizzate. Mi ero chiesto se fosse possibile fare della musica con questi scarti, così ho cominciato a raccoglierli e ad assemblarli, con l’ulteriore vincolo di non utilizzare effetti in post-produzione, ad eccezione di processori di dinamica (equalizzatori, compressori, ecc.). Questo vincolo compositivo e produttivo mi ha permesso di tirare fuori un disco con una sonorità molto particolare e personale.

Ecco, anche per Barber Mouse, l’obiettivo è analogo: fare musica che si distingua, che non ricalchi cose già fatte. Possiamo disquisire sull’entità del vincolo – in fondo improvvisare su un giro armonico costituisce già di per sé una forma di vincolo – ma porsi delle limitazioni è l’unica possibilità di essere davvero creativi, evitando il rischio di perdersi in un mondo senza identità.  


Ringraziamo Stefano per la disponibilità ad approfondire l’affascinante lavoro dei Barber Mouse, un progetto la cui opera sembra voler andare al di là delle semplici riletture e delle pur mirabili reinterpretazioni. C’è, infatti, dietro la loro musica, una considerevole complessità di pensiero che ne rappresenta il centro focale, dove si condensano ricerca, sperimentazione e desiderio di un rinnovamento generale del linguaggio espressivo.

Le ultime apparizioni live dei Barber Mouse, poi, evidenziano un’ulteriore evoluzione stilistica verso un approccio minimalista, ipnotico e con una nuova apertura all’uso dell’effettistica. Si veda, ad esempio, il marcato utilizzo del delay che, se da un lato sconfessa parzialmente il “totalmente acustico” dei primi lavori, dall’altro contribuisce nettamente a creare un sound ancora più connotato e personale. Un esempio eloquente lo si può trovare nel video dell’esibizione bresciana, dove risulta evidente il connubio tra il suono riverberato del pianoforte e l’alterazione timbrica dovuta alle preparazioni, perfetto per l’incedere ripetitivo dei pattern su cui è costruita tutta la composizione. Si materializza così, nota dopo nota, un immaginario magnetico, nelle cui atmosfere avvolgenti e cariche di seduzione è possibile vivere un’esperienza completamente immersiva.

“Heretic Monk” è uscito ufficialmente soltanto in formato digitale, ascoltabile sulle principali piattaforme di streaming, o scaricabile dalla pagina bandcamp. Per gli amanti del supporto fisico e delle tirature limitate, però, esistono anche alcune copie promozionali in CD. Se interessati a queste ultime, potete verificarne la disponibilità contattando direttamente Stefano Risso attraverso le sue pagine social (Facebook: https://www.facebook.com/stefano.risso.14, Instagram: https://www.instagram.com/stecontro).

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Marco Ughetto, appassionato di musica e giornalismo, chitarrista e cantautore amatoriale, si laurea in Cinema al DAMS di Torino nel 2014, con una tesi sui rapporti tra cinema e cultura digitale. Nel 2002, insieme ad altri quattro amici, dà il via alla prima versione di Groovin' - il portale della musica nel Pinerolese.

http://groovin.eu

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