Valeria Tron, la poetessa del patois

Mi sono avvicinato alla musica di Valeria Tron con colpevole ritardo. Sono passati cinque anni dall’uscita del suo primo e, per ora, unico album da solista dal titolo “Lêve les yeux”. Nel frattempo ha ottenuto successi di critica e di pubblico davvero notevoli, tra cui l’approdo alla finale della “Targa Tenco” per la categoria degli album dialettali, e numeri di vendita a quattro cifre. Ma io l’ho scoperta da poco, quando molto di tutto questo era già accaduto. Inoltre, con un approccio casuale dovuto alle caratteristiche dello streaming, che a volte pretende di decidere per te cosa e come ascoltare. L’accesso random ha avuto per lo meno il merito di mettermi subito di fronte a “Neuit maleirouzo” una delle canzoni più suggestive di “Lêve les yeux”, su cui si basano le mie personali chiavi di lettura del disco, fatto di undici canzoni in cui l’intensità dell’interpretazione interiorizza appieno le immagini raccontate, trasudando un sottile e permanente velo di inquietudine.

“Neuit maleirouzo” rievoca atmosfere celtiche – ma in fondo non c’è un fil rouge che accomuna Occitania, Bretagna, highlands scozzesi e Irlanda? – e così il mio primo ascolto è stato un po’ come se Loreena McKennitt non avesse origini canadesi bensì fosse nata e cresciuta in Val Germanasca. Ma è stato un attimo perché poi, sfogliando le varie pagine del disco, ho visto Tracy Chapman cantare in patois, e poi ho sentito del blues, e mille altre suggestioni ancora, tutte filtrate dai suoni che sono tipici delle nostre valli, come quello del semitoun e della sua timbrica particolare, da sempre riferimento per la musica di Valeria Tron. Un modo per raccontare un territorio e le vite che lo popolano attraverso le note, sfuggendo ai cliché cui siamo stati abituati ultimamente da certe rievocazioni folk-rock spesso un po’ circensi e non sempre in grado di rivelare in profondità l’anima che ne soggiace.

Musicista, artigiana, illustratrice, senza che per altro nessuna di queste forme espressive sia prevalente rispetto alle altre, Valeria Tron è per me soprattutto un’autrice e interprete straordinaria, portatrice di un contrasto fisico tra la sua figura minuta e un’intensa voce da blueswoman, sua vera cifra stilistica oltre che il principale veicolo con cui sa trasmettere un indescrivibile coacervo di emozioni. Dopo un anno di assenza dalle scene, la cantautrice sta per tornare con uno spettacolo tutto nuovo dal titolo “Gens”, che vedrà la sua “prima” sabato 4 maggio presso il Teatro del Forte di Torre Pellice. L’occasione è quindi ghiotta per entrare, attraverso l’intervento diretto della protagonista, nel dettaglio di quanto accadrà sul palco, allargando poi il discorso alla sua musica osservata in senso più generale. 


Ciao Valeria, com’è nata l’idea di “Gens”?

“L’idea nasce dall’osservazione dei continui intrecci di persone, volontari o involontari, piacevoli o spiacevoli, di cui è fatta la vita. Volevamo raccontare attraverso la musica questa mescolanza di esperienze soffermandoci sul fatto che la crescita di ognuno di noi deve passare attraverso la capacità di farsi carico anche del bagaglio altrui. Non è solo una questione di accoglienza, che dovrebbe essere un atteggiamento naturale, un dovere morale nei confronti degli altri e di noi stessi. Ma soprattutto di empatia, una cosa meravigliosa in grado di risolvere i mali del mondo”.

Per “Gens” non sarai sola ma ti accompagnerà Carlo Pestelli, un amico cantautore, e sua moglie Cristiana Daneo, marionettista che per l’occasione sarà la protagonista recitante e avrà il compito di amalgamare coi suoi interventi le vostre esperienze. Raccontaci com’è nata questa collaborazione.

“Non avrei potuto raccontare l’esperienza straordinaria che è il confronto con la vita di un altro e il cercare di esserne partecipe se fossi stata da sola sul palco. E chi meglio di Carlo, amico e artista meraviglioso, con una capacità espressiva, musicale e umana enorme, poteva essere il mio compagno di viaggio? In scaletta ci saranno pezzi miei e pezzi suoi, oltre a canzoni scritte insieme, che non saranno però cantate necessariamente da chi le ha composte. Quest’esperienza da il “la” a un viaggio, che è solo all’inizio fatto di condivisione musicale a tutti gli effetti; mi piace pensare che “Gens” sia un saldo punto d’inizio. La cosa più difficile, ed è ben più di un esercizio stilistico, è stata non solo entrare nelle parole dell’altro, ma penetrare nella sua mente, comprendere il suo universo, viverlo in prima persona. Alla fine di “Gens” sarà difficile individuare chi è Valeria e chi è Carlo. Saranno due persone che puoi invertire. È un’esperienza molto carica emotivamente. Sentire Carlo che canta le mie parole, in patois, vedere le mie “immagini” che non sono più io a lasciare andare verso gli altri ma è lui che le invia a me, mi ha commossa, non ho potuto fare a meno di piangere. In “Gens” dunque, l’interscambio artistico si pone come metafora dell’empatia e della capacità di caricarsi il bagaglio delle esperienze altrui. Ecco, credo che questo potrebbe essere un buon modo per affrontare la vita”.

Sono passati più di quattro anni da “Lêve les yeux”. Che cosa è cambiato nel tuo modo di fare musica?

“È cambiato tantissimo. “Lêve les yeux” è un saluto, una preghiera, una riconciliazione. Valeria era da parte, era quella che doveva lasciare andare, perdonare e farsi perdonare, salutare. Le canzoni nuove sono invece quelle di una mamma, che nel frattempo è riuscita a guardare ancora più in profondità dentro se stessa e ha cercato la sua misura. Spero possa uscire presto un disco, che è già strutturato dentro di me, anche se non so ancora dirti in che forma uscirà, né quando. Il tempo non mi ha mai spaventata, e so che la musica ha tempi a volte dilatati per raccontare le cose. So però che questo disco avrà una piccolissima misura. Non mi dispiace per niente essere un battito di ciglia, fragile eppure vitale, perché è una misura molto umana”.

Raccontaci qualcosa del patois, la lingua con cui scrivi le tue canzoni. Che cosa può dire il patois che l’italiano non riesce ad esprimere?

“Il patois è la mia lingua, quella con cui parlo a mio figlio, con cui scherzo, piango e con la quale mi misuro. Inoltre è l’unica lingua che con poche parole è in grado di raccontare la mia vita. Il patois ha la capacità di ridurmi all’essenziale. Ed è inoltre una lingua che io credo universale, nel senso che la sua musicalità lo può portare ovunque. Ricordo, ad esempio, che per una conferenza fui invitata a cantare ma volendo sperimentare la musicalità del patois mi limitati a leggere il testo di una canzone, “Friza e brino”, senza un filo di musica. Pur non capendo una parola, molte persone avevano le lacrime agli occhi. Significa che se, pur parlando una lingua incomprensibile ai più, riesci comunque a smuovere qualcosa dentro, allora hai per le mani uno strumento incredibile. E non è solo dovuto alla mia interpretazione. Se avessi letto un testo in inglese non avrei sortito il medesimo effetto. Il patois ti passa sotto pelle, ha una vitalità sconosciuta, è la vita stessa”.

Sei originaria di Rodoretto, una frazione di Prali in Val Germanasca. Nelle tue canzoni sono frequenti le immagini e le storie che rimandano alle tue montagne, a mondi che sembrano appartenere a un’altra dimensione, sembrano perdersi nella notte dei tempi. È lecito chiedersi quanto di quei mondi possa effettivamente arrivare a chi ascolta le tue canzoni. Cosa ne pensi?

“Non mi sono mai posta il problema. La montagna è il luogo dove sono nata, è il mondo che conosco e testimonio con tutte le forze. Non credo di riuscire a scrivere e cantare ciò che non conosco. Ma la montagna non è questione di altitudine, bensì di attitudine. Io sarò con la mia montagna ovunque mi trovi, perché per me montagna significa “casa” e non è solamente un luogo fisico. Ricordo benissimo quante persone provenienti da altre realtà, anche lontanissime geograficamente, alla fine del concerto mi dicevano che li avevo riportati a casa. In quel momento la mia montagna era la pianura di un altro, il mare di un altro ancora, il deserto e le dune. Quindi la montagna non è che un retropalco emotivo fortissimo; mi ha concesso e mi concede di osservare nel minuscolo, di sentirmi libera ma mai del tutto; è come il sedimento che si forma sul fondo di una caffettiera: darà sempre buon gusto al caffè perché conserva l’aroma. È ciò che resta dentro di noi come risultato della nostra esperienza quotidiana, l’aspetto più umano, la nostra fragilità, aspetti che alla fine ci accomunano tutti indipendentemente dalla nostra provenienza. Spesso non ci piace andare così in profondità a osservarlo da vicino, ma se fossimo capaci a leggere negli occhi degli altri questo sedimento meraviglioso, allora forse al mondo non ci sarebbe tutto questo astio. Abbiamo un disperato bisogno di resistere e conservare bellezza, trasportarla.”


Alla fine del viaggio, le parole di Valeria Tron ci riportano all’idea iniziale, quella da cui è scaturito anche “Gens”, e che evidentemente è parte fondamentale del sostrato culturale ed espressivo della cantautrice. La “capacità di leggere il sedimento negli occhi altrui” è infatti un concetto molto vicino all’invito, simboleggiato dall’interazione artistica che animerà lo spettacolo, ad assumere atteggiamenti empatici nei confronti del nostro prossimo. Perché non possiamo sapere quali pesi e quali sofferenze le persone che ci circondano si trascinano dietro. La capacità di leggere, nel profondo di chi incontriamo, il DNA di esperienze che ne hanno forgiato la personalità, potrebbe alla fine essere un modo per alleggerirne il viaggio.

Buona esperienza!

Ones


Potete trovare i biglietti per “Gens” presso Libreria Volare di Pinerolo (Corso Torino 44) e Edicola Pallard di Torre Pellice (Via Arnaud 13). Per informazioni potete contattare il Teatro del Forte al n. 338.7374223. Nel frattempo vi proponiamo l’ascolto di “Senso dire rien” con cui Valeria nel 2015 si è affermata al concorso “L’artista che non c’era” in collaborazione con il CPM di Franco Mussida.


Aggiornamento del 05/07/2022

Poche settimane fa, Valeria Tron ha pubblicato il suo primo romanzo dal titolo “L’equilibrio delle lucciole”. Un racconto ancora una volta incentrato sulla sua terra, sulle origini, sulle sue radici, su quella che lei chiama “casa”. Questa la descrizione ufficiale che ne fa Valeria:

Ogni punto di partenza ha bisogno di un ritorno. Per riconciliarsi con il mondo, dopo una storia d’amore finita, Adelaide torna nel paese in cui è nata, un pugno di case in pietra tra le montagne aspre della Val Germanasca: una terra resistente dove si parla una lingua antica e poetica. È lì per rifugiarsi nel respiro lungo della sua infanzia, negli odori familiari di bosco e legna che arde, dipanare le matasse dei giorni e ricucirsi alla sua terra: ‘fare la muta al cuore’, come scrive nelle lettere al figlio. Ad aspettarla – insieme a una bufera di neve – c’è Nanà, ultima custode di casa, novant’anni portati con tenacia. Levì, l’altro anziano che ancora vive lassù, è stato ricoverato in clinica dopo una brutta caduta. Isolate dal mondo per quattordici giorni, nel solo spazio di quel piccolo orizzonte, le due donne si prendono cura l’una dell’altra. Mentre Adelaide si adopera per essere utile a Nanà e riportare a casa Levì, l’anziana si confida senza riserva, permettendole di entrare nelle case vuote da tempo, e consegnandole la chiave di una stanza intima e segreta che trabocca di scatole, libri ricuciti, contenitori e valigie, in cui la donna ha stipato i ricordi di molte vite, tra uomini, fiori, alberi e animali, acqua e tempo. Una biblioteca di esistenze, di linguaggi, gesti e voci, dove ogni personaggio è sentimento, un modo di amare. Fotografie, lettere, oggetti che sanno raccontare e cantare il tempo: di guerra e povertà, amori coltivati in silenzio, regole e speranza, fatica e fantasia. Un testamento corale che illumina le ombre e le rimette in equilibrio. La bellezza intensa che respira oltre la vita e rimane in attesa di parole. Tuffarsi nella memoria significa avere il coraggio di inventare un altro finale e vivere oltre il tempo che ci è stato concesso, per ritrovare il luogo intimo di ognuno. La casa.

Potete trovare il libro nelle principali librerie locali e nazionali. Di seguito, il collegamento alla sezione Amazon dedicata:

ones

Marco Ughetto, appassionato di musica e giornalismo, chitarrista e cantautore amatoriale, si laurea in Cinema al DAMS di Torino nel 2014, con una tesi sui rapporti tra cinema e cultura digitale. Nel 2002, insieme ad altri quattro amici, dà il via alla prima versione di Groovin' - il portale della musica nel Pinerolese.

http://groovin.eu

4 thoughts on “Valeria Tron, la poetessa del patois

  1. Buonasera mi chiamo Enrichetta, ho appena terminato il suo libro, L’equilibrio delle lucciole, un libro che tocca il cuore e scatena emozioni, grazie

    1. Buon giorno, la redazione di Groovin’ ha provveduto a inoltrare il suo commento di apprezzamento all’autrice del libro. Cordiali saluti.

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