FUTURO POSTUMO – AA. VV.

Non è dato sapere se Davide Bava e i tre rapper TresDeca, Tito Sherpa e Nasty Mike abbiano letto “Futuro postumo” di Piero Calamandrei e se da esso si siano fatti ispirare. Oppure se l’omonimia sia casuale e che intravvedervi un qualsivoglia parallelismo possa risultare quanto meno azzardato. Ma ci sono alcune evidenti analogie tra il libro e l’ultimo album della crew torinese che non lasciano indifferenti. Soprattutto un sentimento di disistima nei confronti del genere umano e della società contemporanea che sembra seguire le medesime logiche. Per tanto, indipendentemente dalle concrete relazioni tra i due testi, le parole del celebre politico e giurista toscano offrono una ghiotta opportunità per un punto di vista laterale. Un angolo di osservazione non privo di una sua plausibile coerenza, che permette di porre dei punti fermi all’interno di uno stile comunicativo, come quello dei quattro artisti piemontesi, basato più su sensazioni spot che su una definita focalizzazione tematica.

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Il “Futuro postumo” di Calamandrei è un breve racconto distopico, nel quale un cronista descrive gli esiti di una rapidissima guerra nucleare, che pone fine alla razza umana nella sua totalità. La particolarità del racconto è l’utilizzo del passato remoto, da parte del protagonista, per raccontare eventi che, in realtà, non sono ancora accaduti. Un relatore che espone fatti del futuro, come se fossero avvenuti nel passato. D’altronde, per nessuno dei soggetti della vicenda sarebbe stato possibile stilare un resoconto a posteriori, visto che il disastro atomico fu senza superstiti. Così si crea un corto circuito temporale che spiazza il lettore, confuso in un flusso non più distintamente definibile. La storia è dunque una sorta di disegno di Escher testuale che rimescola passato, presente e futuro in un magma indistinto. Un disordine cronologico che è altresì rappresentazione simbolica della particolare posizione esegetica dell’autore, secondo cui sarebbe la scoperta dell’inesorabile fluire del tempo la causa dell’estinzione del genere umano. Comprendere che il destino di tutti è la morte, infatti, crea un vuoto, che si materializza nell’ansia di conoscenza e di conquista. E, ancora di più, nel desiderio di sopraffazione, che porta all’invenzione di conflitti via via sempre più cruenti, sempre più totali. Una sorta di indifferenza verso le conseguenze dei propri comportamenti che conduce a un rischioso egocentrico antropocentrismo.

Il “Futuro postumo” di Bava non è, invece, connotato dallo steso mood catastrofico. A proprio modo però esprime un’analoga visione pessimistica. D’altronde l’hip hop impernia già abitualmente la propria essenza su sentimenti di alienazione e su una feroce critica politica e sociale. E in questo senso, l’album non fa eccezione. In più, come il racconto, esso poggia le sue riflessioni sullo scorrere del tempo, dove lo ieri, l’oggi e il domani spesso si rimescolano. Nell'”Introduzione”, ad esempio, si celebra un certo “presentismo” contemporaneo, perché il passato e il futuro, ci viene detto, appartengono ai morti (“vivo oggi”, cantano risoluti nella traccia d’apertura). Conoscendo la storia artistica degli autori, c’è il fondato sospetto che questa focalizzazione possieda un’intenzione antifrastica. Un’ironia non dissimile a quella con cui il narratore di Calamandrei raccontava il definitivo disastro nucleare, scegliendo accuratamente avverbi e aggettivi positivi, entusiastici, nei confronti dei progressi ottenuti dalla scienza nel perfezionare l’efficienza degli ordigni atomici.

Anche in “Gagarin” si riscontrano delle similitudini con il libro. In quello che è il singolo di lancio dell’album, il cosmonauta sovietico osserva da lontano la piccolezza degli uomini di fronte all’immensità e all’eternità dell’universo. Il primo essere umano nello spazio è diventato recentemente paradigma della volontà di superare i propri limiti. Il suo volo, cantato da più di un artista (v. “G.A.G.A.R.I.N.” di Narratore Urbano), simbolo di fuga dal materialismo terreno e terrestre. Ma qui è soprattutto un punto d’osservazione. Una presa di coscienza dell’insignificanza dell’uomo, il cui passaggio resterà sempre soltanto un frammento infinitesimale rispetto alla somma delle ere geologiche. C’è una correlazione con lo sforzo di Calamandrei di evidenziare quanto la fine della nostra razza non coincida affatto con la fine del mondo. Anzi. La scomparsa dell’uomo sul pianeta, nel racconto dello scrittore fiorentino, è il pretesto per il rifiorire di una natura rigogliosa e finalmente libera dal suo nemico più pericoloso. Sì, proprio quella natura che è anche al centro di “Sostanze”, brano in cui si tessono le lodi dei prodotti della terra e delle cure naturali, quasi a realizzare una contrapposizione supposta con i comportamenti di chi quella stessa terra la sta distruggendo.

Anche se le corrispondenze potrebbero essere accidentali, dunque, i punti di contatto sono evidentemente molti. Magari l’accostamento è arbitrario, ma non si può negare che in entrambi i “Futuri postumi” considerati, più o meno esplicitamente, il dito sia puntato sull’arroganza dell’uomo nei confronti dei suoi simili e dell’ambiente che lo ospita. È qui che si ingenera l’apprensione per il nostro presente, la cui gestione sciagurata rischia di comprometterne l’avvenire, giustificando compiutamente l’aggettivo del titolo.

“Futuro postumo” è un lavoro tutto torinese. Davide Bava ne ha realizzato le basi musicali, “colorate con campioni del ‘900, riprodotti e suonati da un campionatore artigianale“. Su di esse si snocciolano le rime di TresDeca, Nasty Mike (al secolo Michele Lupo) e Tito Sherpa dalla Val Pellice, tre autori dal talento linguistico smisurato e dalla marcata attitudine ad andare oltre il semplice messaggio, a confezionare discorsi con doti poetiche eccellenti. Bastino come esempio le onnipresenti allitterazioni che giocano, in modo mai banale, coi suoni delle parole e con il loro significato. Come nella prima traccia, in cui il bisticcio linguistico basato sulla radice “post” dirotta lo sguardo verso ciò che sarà dopo. Quel futuro inevitabilmente postumo perché costruito sulle macerie dell’oggi.

La squadra di Bava dimostra così che la dicotomia tra forma e sostanza può anche essere riassorbita. Che non necessariamente si deve rinunciare alla prima per modellare la seconda. Per altro, alcune tracce ci aiutano a cogliere le ispirazioni artistiche di questo lavoro. Un lavoro, come sempre, denso di passione – lo si evince dall’immancabile inno autoreferenziale (“ho dentro il fuoco, non smette mai, sta in ogni line, sta in ogni live“, cantano in “Kraken”) – che poggia le basi su molta arte pop del Novecento. Non soltanto i campioni già precedentemente menzionati, che attingono a piene mani dalle library del secolo scorso, ma soprattutto i testi che ne hanno costellato la storia. “Sfingi” e “A mezzanotte”, ad esempio, sono disseminate di menzioni che rimandano a quell’epoca. Molte stelle del rock, come Jim Morrison, Johnny Cash, Cobain ed Hendrix. Ma anche riferimenti ad altre sfere culturali, come ad esempio la Beat Generation o il cinema tarantiniano. Il virtuoso esempio di scrittura rappresentato da “Futuro postumo” contribuisce anche così a smarcare il rap dalla sua connotazione più periferica e, senza snaturarne il carattere di espressività popolare, lo trasforma in fulgido esempio di poesia contemporanea. Una fusione quasi perfetta tra esercizi letterari, linguaggio generazionale e spirito combat.

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Marco Ughetto, appassionato di musica e giornalismo, chitarrista e cantautore amatoriale, si laurea in Cinema al DAMS di Torino nel 2014, con una tesi sui rapporti tra cinema e cultura digitale. Nel 2002, insieme ad altri quattro amici, dà il via alla prima versione di Groovin' - il portale della musica nel Pinerolese.

http://groovin.eu

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