SIGNORA CULTURINA – Ludovico Sanmartino

La cultura è morta. O, quanto meno, fortemente debilitata. Talmente infiacchita da apparire irrimediabilmente compromessa. Un declino lento e inesorabile, le cui origini sono da ricercarsi nel recente passato. Quando l’umanità, abbacinata dal miraggio delle subdole attrattive capitalistiche, perse la sua innocenza primigenia. Quando lo stile di vita consumistico, fulcro del moderno modello economico, cancellò con un colpo di spugna il vecchio sistema valoriale, basato sul rispetto sacrale per la Terra e su un solido sentimento di appartenenza al proprio gruppo sociale.

Sembra volerci raccontare questo Ludovico Sanmartino attraverso la parabola della Signora Culturina, personaggio eponimo del suo ultimo album. Antropomorfizzazione letteraria di un pensiero critico sul viale del tramonto, la Signora Culturina è l’emblema di un mondo alla deriva che rinasce grazie al recupero delle proprie radici. Una storia ambientata nelle sue valli, ma che può essere tranquillamente letta in senso molto più generale. Lo studio, l’approfondimento filosofico, le riflessioni, dunque, acquisiscono senso solo se ricollocate in simbiosi con il mondo che ci ospita. Un interscambio antropologico, giocoforza, lontano dalla transitorietà illusoria di certi miti moderni.

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L’album, uscito la scorsa estate e recentemente rilasciato anche per lo streaming, è un concept dal marcato impianto narrativo e dai velati accenni autobiografici. La storia è quella di Culturina, allegoria del patrimonio intellettuale umano, che muore nell’indifferenza della società contemporanea, ipnotizzata dal comodo quanto opprimente modello produttivo coevo. Ma è anche quella di un personaggio che impara a riconoscere nella propria storia la via per tornare a rifiorire e nella memoria atavica uno strumento di conoscenza.

Il passaggio tra le due condizioni è delineato non soltanto dallo svolgimento narrativo. È soprattutto la varietà degli idiomi che rimarca il concetto sottostante. Il meticciato linguistico dei testi è, infatti, volutamente poco amalgamato. Anzi, il livello significante si basa proprio sulla netta cesura tra la prima parte in Italiano, in cui è descritto il decadimento di Culturina, e una seconda interamente in patuà – dove per altro l’interpretazione di Sanmartino sembra più convincente – quando la protagonista rinasce tra la maestosità delle montagne e le tipicità della sua gente.

Il prologo fa risalire l’inizio della storia agli anni Settanta, culmine di un’epoca di imponenti flussi migratori interni verso i grandi agglomerati urbani del Paese. Nuovi posti di lavoro nascevano come funghi e offrivano la chimera di una vita più confortevole, priva del sudore e della fatica imposti dalla quotidianità delle aree rurali. E con, in più, il sogno di un arricchimento che avrebbe dovuto portare maggiore agiatezza e affermazione sociale. Ma è già dalla successiva “Intro” che la riflessione evidenzia il peccato originale di questa illusione. Il “decesso del passato” marca la fine di una purezza quasi primordiale, elevando le montagne a terra promessa, simbolo di indipendenza verso cui diventa indispensabile tendere. Le alture non sono più soltanto fisiche e geografiche, ma anche e soprattutto morali. Le vette rappresentano la sineddoche di un luogo di crescita, universo pedagogico in grado di offrire lezioni di vita profonde.

La personale visione dello sfaldamento della cultura trova il suo centro focale nella orwelliana “Distrazione”. Si tratta di una sorta di “Fattoria degli animali” collocata ai nostri tempi. Le masse di polli sono ipnotizzate dalle creste dei galli e dalle ruote dei pavoni, e non si accorgono che la faina si insinua nel corpus sociale sotto forma di figura salvifica. Si innesca così una specie di Sindrome di Stoccolma. Il suddito finisce per amare il tiranno, in una venerazione proletaria per il padrone, che nel frattempo ha annichilito ogni sua capacità critica e sfruttato ogni goccia del suo sudore.

Culturina muore in un funerale irrispettoso e solo con il recupero dei legami ancestrali con la sua genesi potrà risorgere dalle sue ceneri come la Fenice. Il passaggio dalla vecchia alla nuova vita avverrà così con il citato mutamento linguistico, anticipato sulla coda di “Funerale” dalla melodia di “Per ben la dancar”, buréo tradizionale già portata al successo dai Lou Dalfin in “Gibous, Bagase e Bandits”. Di lì in avanti, l’analisi socio-politica lascia il posto alle atmosfere tradizionali e al folclore, laddove personaggi tipici, vecchi mestieri, strumenti e balli popolari, diventano protagonisti di esempi pedagogici per le nuove generazioni. 

Colpisce la precisa direzione della scrittura di Ludovico Sanmartino. Un sapiente esercizio poetico denso di lirismo, che sa abilmente evitare i cliché come pochi altri autori in zona. Una padronanza della lingua e un songwriting maturo, in cui De André rappresenta senza dubbio il modello fondamentale. Anche per il tipico andamento metrico e per l’attitudine a saper sempre cogliere le sfumature di una certa world music. Le spruzzate rock delle chitarre, infatti, sono sempre misurate e ad emergere è soprattutto l’approccio “etnico”. Un attenzione al popolare, senza però troppi riferimenti alle tradizioni locali. Infatti, a parte il dato linguistico e qualche controllato riferimento testuale a elementi geografici, musicali e coreutici, nell’album c’è poco di veramente occitano. Niente ghironde o semitoun, per intenderci. Armonica e banjo richiamano infatti più il folk americano con sonorità bluegrass, mentre fanno capolino armonie di stampo irlandese e riff marcatamente mediorientali e balcanici.

Un lavoro notevole, dalle idee chiare, che diventa sempre più sorprendente man mano che si approfondisce l’ascolto. Per dare corpo al progetto, il cantautore della Val Germanasca – voce, chitarra e banjo, oltre che autore di testi e musiche – si è attorniato di un gruppo di musicisti di spessore. In ordine rigorosamente alfabetico, hanno suonato e contribuito agli arrangiamenti del disco Paolo Bonnet (batteria e percussioni), Massimiliano Mosca (basso e contrabbasso), Matteo Pons (cori e armonica a bocca) e Nicholas Scontus (chitarra elettrica).

Buon viaggio.

Ones

ones

Marco Ughetto, appassionato di musica e giornalismo, chitarrista e cantautore amatoriale, si laurea in Cinema al DAMS di Torino nel 2014, con una tesi sui rapporti tra cinema e cultura digitale. Nel 2002, insieme ad altri quattro amici, dà il via alla prima versione di Groovin' - il portale della musica nel Pinerolese.

http://groovin.eu

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