BOUT DE LA NUIT – David

Si fa presto a chiamarlo pop. Bisogna, infatti, fare molta attenzione a non scivolare nell’equivoco che un approccio superficiale potrebbe innescare. Perché la tentazione del primo ascolto è quella di liquidarlo come l’ennesima raccolta di canzonette generazionali. I brani esprimono, infatti, con un linguaggio chiaramente contemporaneo, le inquietudini di chi sta plasmando la propria personalità e costruendo il proprio posto nel mondo; manifestano la necessità di esternare le pulsioni interiori e il disagio sociale tipico di una certa fascia anagrafica. Normalmente, però, in questi contesti non si evince una vera attitudine analitica, mentre qui c’è un lavoro riflessivo decisamente più complesso. Anche la produzione, accurata ma semplice, malgrado le fitte strizzate d’occhio all’indie e alla nu soul, racconta di un cantautore perfettamente incuneato negli stilemi compositivi e interpretativi dell’ItPop. Elementi che potrebbero trarre in inganno se non si scavasse scrupolosamente oltre la loro coltre epidermica. Dietro una leggerezza apparente, infatti, nel nuovo EP di David (Quasso), “Bout de la nuit“, si celano rilevanti incursioni esistenziali, oltre che riferimenti culturali di spessore che non si possono certamente ignorare.

david quasso bout de la nuit copertina cover

David è un cantautore i cui testi trasudano di passione per la filosofia e la letteratura. Le sue canzoni sono disseminate di citazioni colte, che offrono all’ascolto intriganti soluzioni interpretative. A partire dal titolo del suo ultimo lavoro, che richiama in modo esplicito il romanzo “Viaggio al termine della notte” di Louis-Ferdinand Céline. All’opera più famosa dello scrittore francese, David dedica il suo album e ad essa si ispira. Sette tracce, come le ore della notte, intesa qui in senso più metaforico che letterale, con l’oscurità che si fa veicolo simbolico del suo recente percorso di psicanalisi e autoanalisi, resosi necessario per superare un momento difficile della sua vita. In questo suo itinerario introspettivo, l’opera di Céline ha avuto un fondamentale ruolo illuminante, pedagogico e consolatorio. La “notte” del letterato transalpino era un viaggio cinico e nichilista che, col pretesto dell’approfondimento di alcuni temi chiave del Novecento come la guerra e l’industrializzazione, rifletteva sull’essere umano e sulle sue miserie. Allo stesso modo, il cantautore bagnolese affronta un cammino nel proprio “buio” personale in una sorta di bildungsroman musicale. Un’evoluzione parallela a quella del protagonista del libro, che lo conduce alla ricerca della luce tramite la coraggiosa sfida alle tenebre.

L’immersione in questa oscurità avviene attraverso l’insolito dialogo iniziale con lo Xanax (che è anche il titolo della prima traccia dell’EP). Quasi una dichiarazione d’amore per l’ansiolitico, che, per David, dovrebbe rappresentare la preparazione alla notte, la ricerca della necessaria tranquillità per affrontare il buio e della forza per andare incontro ai suoi demoni. Quelle ansie che lo fanno sentire fuori posto, che gli creano difficoltà nel trovare il proprio percorso, che ingenerano una sorta di “autodisistima”. Un’inquietudine che David combatte ricercando leggerezza. Che non significa banalità, ma capacità di dare il giusto peso alle cose. Come in “Godot”, ad esempio, dove si analizza “la ricerca ossessiva di ciò che non si può essere“. Essa si focalizza sull’importanza di affermare la propria personalità individuale, senza condizionamenti, e di sapersi accettare per come si è, per evitare pericolosi sentimenti alienanti. Perché, come l’eponimo protagonista della nota opera teatrale di Beckett, i cambiamenti attesi potrebbero non arrivare mai.

“Festa mobile”, invece, è un ulteriore connessione con la biografia di Céline. La citazione è quella dell’omonima raccolta di memorie di Ernest Hemingway, il cui suicidio ebbe risonanza tale da eclissare la morte del francese, avvenuta pochi giorni prima, oscurandone la fama anche negli anni a venire. Attorno all’idealizzazione del legame tra lo scrittore statunitense e la sua prima moglie Hadley, che ritorna più volte nel testo, David costruisce il ricordo di un amore complicato, forse finito, che sembra invitare ai rapporti fugaci, per la paura delle complessità implicate nelle relazioni stabili.

“Solo per un’ora”, poi, raccoglie tutti gli aspetti stilistici della scrittura di David. Pubblicato già nel 2021 come singolo, interpretato in duetto con la bravissima Chester (al secolo, Estera Debora Stanciu), il brano è incastonato a metà dell’EP, come un sorta di punto di fuga. Sostenuto da una tessitura strumentale leggera, che sembra quasi invitare al ballo, il testo esprime il disagio dell’autore in tutte le sue sfaccettature: la necessità di approvazione, la ricerca della propria strada e dell’affermazione della propria personalità, la scarsa empatia della società contemporanea, ma anche il tono di chi non vuole prendersi troppo sul serio, perché è conscio che la soluzione sta in una buona dose di levità. Ed è proprio qui che si concentra la coerenza della scrittura di David. Nel riuscire a esternare il proprio malessere, evitando i toni cupi dell’esistenzialismo. Rispondeva così, infatti, a un’intervista sul settimanale “Le Valli” di qualche tempo fa: “Nell’epoca della trap, dell’esaltazione del forte, del soldo, della finzione, dell’apparenza, decisi di scrivere per chi invece non si riconosceva in tutto ciò, con l’obiettivo di normalizzare lo stare male, quasi a prendersene gioco e a ironizzarci su“. Un distacco emotivo che qui trova il suo apice, nella pulsione ternaria che manifesta il desiderio di spensieratezza e di un ritorno alla normalità, in parte innescato anche dalla lunga clausura imposta dal Covid.

L’album si completa poi con la ballad “Luna”, le atmosfere soul di “Tagadà” e l’acustica “Via Antica”. In questa traccia conclusiva, David analizza “la miseria dell’essere umano“. Navigando tra i vicoli della prostituzione, immagina per la protagonista un’esistenza diversa e più attinente ai canoni della normalità. Un auspicio che il cantautore, evidentemente, sembra rivolgere anche a se stesso, con questo ultimo percorso catartico che lo fa riemergere verso una nuova alba, segno tangibile dell’agognato diradamento delle tenebre.

Un ringraziamento speciale David l’ha voluto fare a Roberto Galimberti, violinista, arrangiatore, esteta, noto soprattutto per le installazioni artistico-musicali che da più di un decennio animano i cartelloni del Castello di Miradolo. “Per me – racconta il cantautore – il Dottor Galimberti è stato una guida in adolescenza. Ha creduto in me quando avevo 17 anni con una presentazione a Miradolo su Kierkegaard. Mi ha preso sotto la sua ala e mi ha donato delle letture come Arturo Martini e appunto Céline. Mi ha fatto capire che con l’arte si vive, mi ha avvicinato alla musica classica e all’arte contemporanea. Nei miei momenti di crisi mi è stato vicino, e ha sempre voluto che io finissi la facoltà di Filosofia. Ho partecipato all’allestimento di diverse mostre con lui, e attraverso un lavoro di “bottega”, un apprendistato come faceva Michelangelo alla fine, mi ha aiutato ad inglobarmi nel mondo dell’arte“.

Céline, dunque, come faro che traccia la rotta dell’evoluzione personale, ma anche come ispirazione artistica. E poco importa che lo scrittore sia oggi più noto per le sue presunte simpatie naziste e antisemite che per le sue opere. In proposito, infatti, David risponde fermo: “Le posizioni antisemite, da lui mai dichiarate, ma supposte dall’editoria del tempo, non mi appartengono, anche perché io sono totalmente apolitico, lotto per la libertà di chiunque, e non mi interessa essere etichettato. Io ho soltanto trovato in Céline un luminare di letteratura ed epistemologia, che mi ha aiutato ad affrontare la mia notte. È un po’ come giudicare le poesie di Gabriele D’Annunzio supponendo che derivino dall’influenza fascista. La letteratura, l’arte, la musica, è tutto ciò che è bellezza prescinde da ogni giudizio politico, sociale o religioso. Heidegger, nazista dichiarato, ha scritto la filosofia del Novecento nonostante fosse appunto antisemita. L’arte non prescinde da tutto ciò che può contestualizzarla“.

In definitiva, per poter apprezzare al meglio le sette canzoni di “Bout de la nuit” è quasi indispensabile conoscerne le urgenze espressive che ne costituiscono la scaturigine. Dietro a un’apparente facilità d’ascolto si nasconde, infatti, un’interiorità scandagliata nei minimi termini, in un cammino verso l’acquisizione della consapevolezza del sé. Solo conoscendosi a fondo, e accettandosi senza riserve – sembra dirci David – si può superare con serenità la notte che prima o poi, per ognuno di noi, viene a spezzare la luce del giorno. “La sofferenza e l’infelicità sono dei valori, bisogna accettare di essere umani“, ribadisce David. E in fondo, le sue canzoni non sono soltanto il racconto della sua storia, ma vogliono farsi anche esperienza per chi “non ce la fa più, per chi ha perso tutto“. E che, magari anche grazie alla sua testimonianza, lotterà con maggior vigore e “risorgerà alla fine della notte“.

L’album è stato prodotto e arrangiato da Amedeo Ripa di Meana, tranne “Xanax”, prodotta ai Docks Dora di Torino da Luca Vergano. Hanno collaborato con David Quasso, oltre alla già citata Chester, il chitarrista Alessandro Peiretti e Alexa Dossetto, voce in “Tagadà”.

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Marco Ughetto, appassionato di musica e giornalismo, chitarrista e cantautore amatoriale, si laurea in Cinema al DAMS di Torino nel 2014, con una tesi sui rapporti tra cinema e cultura digitale. Nel 2002, insieme ad altri quattro amici, dà il via alla prima versione di Groovin' - il portale della musica nel Pinerolese.

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